L’ albero degli zoccoli

Così doveva apparire la cascina lombarda alla fine del secolo scorso. Ci vivevano quattro, cinque famiglie di contadini. La casa, le stalle, la terra, gli alberi, parte del bestiame e degli attrezzi appartenevano al padrone, e a lui si dovevano due parti del raccolto.

La calma ovattata della pianura silenziosa immersa nella foschia, il cinguettìo degli uccelli e lo scorrere dell’acqua, un canto sacro in lontananza. Così ha inizio L’albero degli zoccoli, un film del 1978 diretto da Ermanno Olmi.

Dopo la Santa Messa, in sacrestia c’è il parroco che autorevolmente cerca di convincere Batistì a fare studiare il figlio maggiore Mènec, un bambino di 6 anni portato per lo studio. Ma Batistì non è molto convinto, sa bene che ciò comporterà maggiori sacrifici e poi «un figlio di contadini a scuola, chissà cosa diranno!»; e poi la strada: sei chilometri di andata e sei di ritorno che Mènec dovrà fare da solo ogni giorno e a piedi. Ormai pensava che avrebbe potuto cominciare a dare seriamente una mano, visto che la madre è in attesa del terzogenito.

Ma don Carlo insiste, il Signore ha dato il dono dell’intelligenza a Mènec e la volontà del Signore va rispettata, Mènec potrà aiutare meglio la famiglia in un futuro, magari riscattandola dalla povertà di una vita contadina. Alla fine Batistì se ne fa una ragione e torna con la moglie alla cascina, dove vive con altre tre famiglie nelle stesse condizioni.

La famiglia della vedova Runk, che è rimasta da poco senza marito, e sfama i suoi quattro figli facendo il bucato per altri. Il figlio maggiore viene assunto come garzone dal mugnaio che vuol aiutare una famiglia in difficoltà, e a soli quattordici anni diviene il capofamiglia. All’offerta riferita da don Carlo di accogliere i piccoli in orfanotrofio, egli risponde in modo pragmatico, la sua volontà è quella di mantenere unita la famiglia.
Con loro vive anche Anselmo, il nonno paterno, un punto di riferimento molto importante per i bambini: raccontando storie, filastrocche abitua i bambini all’attesa e all’ascolto, tramandando le conoscenze della tradizione popolare e insegnando ai bambini ad esorcizzare le paure.

Un’altra è la famiglia della Maddalena che lavora in filanda ed è in età da marito. Con discrezione è corteggiata da Stefano, che con la scusa di volerle dare la buonasera strappa il permesso di andarla a trovare. Così affrontando la paura del buio della notte comincia a frequentare le famiglie della cascina, che la sera si ritrovano nella stalla a fare filò.

A differenza delle altre famiglie dove regna un mutuo rispetto e un legame di condivisione, in quella di Finard, padre autoritario e facile all’ira, sono frequenti litigi e sfuriate. Egli è in perenne contrasto con il figlio maggiore che considera un fannullone, il quale peraltro beve di nascosto. L’altro figlio a quindici anni bagna ancora il letto e la madre va in crisi ogni mattina per dover provvedere a cambiare le lenzuola (mica c’è la lavatrice…) e a far asciugare il materasso.

Il film ambientato nella pianura bergamasca tra l’autunno del 1897 e la primavera del 1898 è in dialetto tipico del luogo (mi pare di ricordare ci fosse anche una versione con sottotitoli in italiano), gli interpreti non sono attori professionisti ma gente del luogo senza esperienza di recitazione.

Le opere per organo di Bach eseguite dal maestro Fernando Germani, già organista titolare dell’organo di San Pietro in Vaticano, sono state scelte da Ermanno Olmi perchè ben s’accostano al periodo e all’ambientazione.

Il film racconta di un’Italia fine 1800, che si reggeva ancora su un sistema feudale, in cui i signori sono padroni di ogni cosa e danno le loro proprietà in comodato d’uso ai contadini. Questi ultimi, prendendosi cura dei loro beni e facendoli fruttare, in cambio ottenevano un alloggio nella cascina e una piccola parte del raccolto. Una vita di fatica e di stenti che nel film appare edulcorata, ma credo che nelle intenzioni del regista ci fosse più l’intento di immortalare una testimonianza di un mondo genuino e di spessore, che sentiva si stava perdendo con il benessere artificioso che ne seguì.

Il lavoro contadino era faticoso e logorante, prevalentemente manuale con l’uso di attrezzi rudimentali, esposti al sole cocente o al ghiaccio invernale perennemente in balìa del fato, niente e nessuno poteva garantire come sarebbe stato il domani: lo stato di salute, i fenomeni atmosferici, la qualità e la quantità del raccolto, gli imprevisti vari.
Una condizione d’incertezza in cui l’uomo è certo di appartenere alla natura, a cui dà e prende; vive giorno per giorno, nella speranza che tutto vada bene e che il buon Dio veda e provveda. Così accade quando si ammala la mucca della vedova Runk unica sua proprietà, essenziale per la sussistenza della sua stessa famiglia visto che fornisce l’alimento primario per l’uomo: il latte. Nella disperazione ella non si abbatte, le resta ancora un’ultima cosa da fare prima di arrendersi: riempie un fiasco con l’acqua del canale, va in chiesa e con la preghiera invoca la benedizione della Divina Provvidenza a cui si affida, e fa bere l’acqua alla mucca nella speranza che guarisca.

L’aver fede in Dio e la speranza nella Divina Provvidenza consentivano di andare avanti nonostante tutto. La religione aveva un forte significato ed era molto presente nei rituali e nei simboli: le preghiere e il rosario recitati più volte al giorno dalle donne e dagli anziani, i “santini” (immagini sacre) appesi ovunque, anche nella stalla, l’acquasantiera accanto al letto per il segno della croce prima di affrontare il buio della notte.
Una condizione di vita umile e povera quella contadina, ma ciò non impediva di praticare quella che per la religione cristiana è la terza delle Virtù Teologali: la carità, verso chi sta peggio ed è privo di mezzi. Come Giopa, che mendica di famiglia in famiglia e prega per essa in cambio di un po’ di cibo, ed è accolto dignitosamente, pur con un certo riserbo. Ai ragazzini inconsapevoli, Giopa fa un po’ ridere, ma vengono subito moderati, perchè non si ha mai pienamente coscienza di ciò che accade a queste creature di Dio. Tre virtù contemplate sia dal mondo laico che da quello religioso, il cui principio comune è l’amore per il prossimo.

Salta agli occhi l’amorevolezza di chi si rispetta l’un l’altro, naturale e priva di fronzoli, ognuno nel suo ruolo in un mutuo soccorso.
Una ricchezza spirituale di cui difetta Finard, e che infondo è la causa dei suoi stessi mali: prima baciato dalla dea fortuna nell’aver trovato una moneta d’oro, poi punito per la sua avidità nel non averla condivisa con la famiglia, e per la sua ingenuità (vien da chiederselo fin da subito: come si fa a scegliere un posto simile per nasconderla?!). Egli anzichè pentirsi e imparare la lezione, si scaglia con ira contro l’animale, come se fosse lui responsabile della sua dabbenaggine.
È un comportamento molto diffuso oggi: si spendono enormi energie nell’attribuire colpe ad altri, si scagliano fulmini e saette ovunque, senza riflettere, capire e chiedersi cosa si può fare, e si persevera nell’errore: demolire tutto senza costruire niente. Un atteggiamento alquanto autolesionistico.
La rabbia di Finard infatti gli procura un malanno che viene curato dalla ‘donna del segno’ che conosce i rimedi antichi tramandati di generazione in generazione. Ella pratica un rito singolare, un’ottima panacea per estinguere gli effetti del malanimo, visto poi che probabilmente chiamare un medico sarebbe risultato troppo oneroso. Da notare anche il parto che avviene in casa con l’aiuto delle altre donne, tra le quali quella con più esperienza fa da levatrice “se non ci aiutiamo tra noi…

L’acume di nonno Anselmo nello sfruttare ciò che ha a disposizione: in gran segreto con la complicità di Bettina, la nipote, sperimenta il concime di gallina al posto di quello di mucca. La sua intuizione gli consente di avere i pomodori maturi un mese prima degli altri in modo naturale e senza alterare lo stato naturale delle cose.

I contadini per la maggior parte erano analfabeti, andare a scuola era un privilegio, e spesso nonostante l’impegno e i sacrifici non si andava oltre la quarta elementare. Nel film c’è chi senza alcuna remora usa espedienti, come mettere i sassi sul sottofondo del carro per aumentare il peso del raccolto e riceverne quindi una percentuale maggiore per sè; e chi dopo aver ben soppesato decide di rischiare tutto per amore del figlio, che con lo zoccolo rotto non avrebbe più potuto andare a scuola. Due trasgressioni con due pesi e due misure.

L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi – Italia, 1978


Quando per la prima volta da ragazza vidi questo film, fui molto sorpresa per quanto rappresentasse la realtà che avevo sentito spesso raccontare da mia madre (e infatti le raccomandai di vederlo e ancora sospira piacevolmente quando glielo nomino). Ma anche per quanto mi riconoscevo, pur essendo di un’altra generazione e mi facesse apprezzare meglio ciò di cui beneficiavo.

La mancanza dell’energia elettrica per esempio è un aspetto davvero traumatico: oggi ancor più, non ci si rende conto di quanto sia indispensabile finchè non viene a mancare, magari per un qualche breve black out. Anche se sappiamo che non c’è, continuiamo ad accendere luci, ad attivare elettrodomestici, a compiere gli stessi gesti in modo automatico. Come potremmo conservare cibi, aver l’acqua calda, ascoltare musica, vedere film, essere informati di ciò che accade nel mondo?

E l’acqua corrente in casa…un lusso! Una volta si usava la brocca col catino, e col secchio si andava a prendere l’acqua al pozzo o alla fontana vicino casa, mi raccontava mia madre, e si faceva riscaldare sul camino o sulla stufa a legna.
Mio padre invece mi parlava dei rabdomanti, i cercatori d’acqua che venivano chiamati quando era necessario un nuovo pozzo. Una storia che mi facevo ripetere spesso da quanto ero attratta da queste pratiche divinatorie che si rifanno al periodo pagano, così come la donna del segno.

LA RABDOMANZIA

La rabdomanzia è considerata una pratica divinatoria mediante la quale, attraverso le vibrazioni di una specifica bacchetta flessibile, si è in grado di individuare una sorgente o una falda acquifera sotterranea.

Più precisamente la parola rabdomanzia indica la divinazione compiuta a mezzo di un bastoncello, nella forma cioè tradizionale e antichissima che trae la sua origine dai culti arcaici degli alberi e delle piante. (Treccani)

Più recente è la pratica dei rabdomanti di cui si hanno riscontri in Europa dal 1500 fino ai giorni nostri in varie parti del mondo, però è una pratica che non è mai stata riconosciuta dalla scienza.

In Africa gli “indovini dell’acqua”, un tempo stimati e riveriti sciamani, perlustravano le savane riarse dal sole con pendoli magnetici e bacchette flessibili, in silenzio “ascoltavano” i rumori impercettibili della terra, e quando sentivano la “vibrazione” giusta, segnavano il punto in cui bisognava scavare il pozzo. Come per magia riuscivano a far sgorgare l’acqua dal sottosuolo.

di Marco Trovato

Ai tempi del filò

Da bambini ci siam fatti grasse risate quando nonni e genitori ci raccontavano dei pitàli, vasi da notte puzzolenti che venivano posti sotto al letto. Al mattino venivano svuotati nel cesso (il gabinetto si chiamava così, senza un senso volgare).
Ce n’era uno unico per tutti, di cesso, all’esterno di solito con tettoia e pareti di legno, formato da due assi e un buco. Feci e urine finivano in basso, sul terreno che periodicamente veniva disinfettato con la calce viva; oppure l’urina raccolta, opportunamente diluita andava a concimare le piante.

Le nostre origini umili contrastano con quanto di snob e schizzinoso c’è al giorno d’oggi… e poi con questa storia del bidet, che in Francia non ce l’hanno e noi sì… tante inutili discussioni generate solo da pregiudizi, il cui unico risultato è quello di dividere. A rifletterci sù, questa enfatizzazione eccessiva della pulizia: bidet, docce più volte al giorno, deodoranti antitraspiranti, depilazioni parziali o totali… sembrano quasi atti di espiazione, mossi da un desiderio di purificazione.

IL BIDET

Del bidet o bidè, l’apparecchio sanitario utilizzato per l’igiene intima, non si conosce né la data certa né il nome del suo inventore, ma la prima testimonianza certa risale al 1710, anno in cui il probabile inventore, Christophe Des Rosiers, lo installò presso l’abitazione della famiglia reale francese. Ma fin da subito fu poco utilizzato, a Versailles ne esistevano in circa cento stanze e furono dismessi tutti in una decina di anni. I pochi esemplari usati finirono nelle case d’appuntamenti.
Nella seconda metà del Settecento Maria Carolina d’Asburgo, Regina di Napoli e delle Due Sicilie, volle un bidet nel suo bagno personale alla Reggia di Caserta, ignorando l’etichetta francese di “strumento di lavoro da meretricio”. Si diffuse poi in tutta la penisola.
Dal 1900, durante l’età vittoriana, con la diffusione delle tubature all’interno delle case private, il bidet divenne un oggetto utilizzato non più in camera da letto, ma nel bagno, insieme al water, che sostituiva il vaso da notte tenuto in camera.
Nel 1960 invece ci fu l’introduzione sul mercato di un sanitario risultante dall’unione del water con il bidet, ideato dallo svizzero Hans Maurer nel 1956, particolarmente utile in piccoli ambienti in cui i due sanitari non troverebbero posto; esso è a volte detto bidet elettronico, ma la sua diffusione in Italia non ha incontrato favore a differenza del Giappone in cui i washlet sono molto diffusi.

I bidet non sono presenti in tutti i paesi europei, l’Italia è l’unico paese ad avere un Decreto Ministeriale (art.7 D.M. del 5 luglio 1975) che ne preveda l’installazione. Anche in altri paesi del mondo non è sempre presente. Dopo gli anni 70 progressivamente una grande quantità di persone lo ha eliminato dalla propria casa per motivi di spazio.
Il bidet è spesso oggetto/fonte di pregiudizi, perchè se da un lato gli abitanti dei paesi che non lo usano lo possono considerare un oggetto strano e anche sporco secondo dei tabù legati all’igiene personale; dall’altra gli abitanti di paesi in cui il bidet è comune si stupiscono ed incontrano difficoltà quando si trovano in paesi in cui questo sanitario è assente.

 

Vien da sorridere pensando quando al posto della carta igienica morbida, a più veli, profumata e decorata, si usava la carta di giornale o prima ancora le foglie degli alberi! Sembra che la prima ad usare la carta igienica sia stata la famiglia imperiale cinese nel 1300; in Italia era considerata un lusso fino alla metà del secolo scorso. Negli anni 60 da piccolina mi ricordo quella rosa, spessa e un tantino ruvida che ritrovai nella Jugoslavia degli anni 90, pochi mesi prima che scoppiasse la terribile guerra civile tra nazionalismi ed etnie che la disgregò (1991-1995).
Conosco qualche persona che non riesce a usare il bagno altrui e deve tornare a casa in caso di bisogno. Ma quanto ci complichiamo la vita!

E i materassi? Si usava come base un materasso di crine vegetale e sopra un altro materasso con interno in lana, oppure di piume d’oca e ti sprofondavi che era un piacere!

IL MATERASSO

Il termine materasso deriva dall’arabo مطرح e significa “gettare” e “posarsi su”. Gli europei adottarono il metodo arabo di dormire su di un cuscino poggiato direttamente sul terreno durante le Crociate.
Si pensi che già nel 3600 a.C. i persiani pensarono al materasso ad acqua, con cui riempirono pelli di capra che usarono come giaciglio; nel 200 a.C. nell’Antica Roma si faceva uso di sacchi di stoffa ripieni di fieno o lana, e per i più facoltosi di piume di uccelli.
Nel 1824 nella Contea di Somerset in Inghilterra fu brevettato il primo materasso ad aria. Nel 1871 il tedesco Heinrich Westphal inventò il materasso a molle, egli morì in povertà, non avendo avuto alcun profitto dalla sua invenzione.
Nel 1873 Sir James Paget (medico personale del principe di Galles) presentò un materasso pieno di acqua per il trattamento dei degenti affetti da piaghe da decubito.
Seguirono quindi il primo materasso in lattice di gomma nel 1928 realizzato da John Boyd Dunlop, fondatore dell’omonima società di pneumatici e quello in schiuma sintetica nel 1935 con l’invenzione del poliuretano (PUR) in Germania.

La NASA dal 1935, per una maggiore sicurezza dei seggiolini spaziali, utilizza una nuova schiuma sintetica a lento ritorno elastico (Memory Foam) impiegata in seguito anche per i materassi, e infine il materasso ad aria che arriva nel 1980.

Curioso quanto tempo passi dall’invenzione alla diffusione di massa.

 

Negli anni 60 le reti furono messe a dura prova dopo che al Carosello della RAI passò la pubblicità dei materassi. Chi può dimenticare la canzone “Bidibodibu, Bidibodiye“ del Quartetto Radar con i bambini piccoli che saltavano sul matterasso? Fu un tormentone quella pubblicità, come quella dell’olio “e la pancia non c’è più” con Il mattino di Grieg in sottofondo, e la mitica “Contro il logorio della vita moderna” con Ernesto Calindri, seduto a un tavolino da bar in mezzo al grigiore del traffico caotico cittadino… presagio di quello che sarebbe diventato il futuro!

E la tradizione del ‘far filò’ ha da sempre un suo fascino, come momento di socializzazione e ancor più di difesa dal freddo invernale che un tempo era molto più rigido di adesso; pergiunta la legna andava risparmiata perchè apparteneva al padrone. Tanti corpi messi insieme creavano il calore necessario, così come il lavorare a maglia, l’aggiustare gli attrezzi, l’amoreggiare tra giovani alla luce fioca delle lampade ad olio, suoni e rumori ovattati nel sonnecchiare dei bambini al respiro lento degli animali, il racconto a bassa voce di storie e aneddoti… tutto ciò creava un’intima, calda atmosfera decisamente d’altri tempi. Nel mondo rurale seppur duro e privo di ogni benessere materiale, si dava importanza alle piccole cose.

IN FILO’

Una stala bruta e negra
Co tre bestie a la cadena,
E na lampada che apena
La difonde el so ciaror.

Muri mogi de siroco
Bruti e sporchi tuti quanti,
Quatro travi sgiossolanti,
Pavimento a onda de mar.

Sinque scagni e tre bancheti
Do careghe sgangherae,
Paia e cane strassinae,
Eco tuto parecià.

Dopo sena zé l’ ingresso,
Fra l’odor de le buasse,
Tute alegre ste ragasse
Le scomincia el so lavor.

Chi na calsa, o na traversa,
Chi na blusa se parecia;
Da na banda sta na vecia,
E fra i bo ghe zé el paron.

Una tosa fa la dota,
E so mare là vissina
La se gode, povarina,
E la sogna l’avenir.

I pissini no sta fermi;
Zè chi ciama, siga o cria,
E la vecia: Ave Maria!
El Rosario su, dizé!

Ma le porte se spalanca,
Do, tre tosi se presenta:
“ Vegna vanti, qua…el se senta “,
Dize Lola in… batticor.

El saloto zé completo!
Complimenti e gran sempiade,
Gran bravure e gran ociade,
L’ore passa… el tempo va !

Zé chi dise mal dei altri
E chi parla figurato…
E una tana de pecato
El diventa quel “ filo’

D’improvviso, sorta in pié,
Una vaca la rincula
E con forsa la ghe mula:
“Basta, fora! A leto andè !”

di Don Virginio Panziera,
sacerdote nativo di Venegazzù in provincia di Treviso.

Il testo è stato ritrovato su una carta logora ed ingiallita nella soffitta di una vecchia casa. È tratto da “DE CRUDE E DE COTE” volume di poesie in dialetto veneto, l’autore con sapiente arguzia descrive il carattere e il comportamento della gente contadina trevigiana.
Edito a Vicenza nel 1935. Copia è conservata nell’archivio Parrocchiale di Venegazzù.


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