Il diritto a un contesto famigliare

Con la legge sull’affidamento e l’adozione del 2001 (L. 149 del 28 marzo 2001) si decreta anche la progressiva chiusura degli istituti per minori, riaffermando il diritto dei bambini ad avere una famiglia o comunque a vivere in un contesto familiare. Si prevede così il potenziamento dell’affidamento familiare e, in alternativa, l’inserimento dei minori in comunità di tipo familiare.

CHIUSURA DI ORFANOTROFI E BREFOTROFI

La chiusura degli istituti quali:
i brefotrofi, destinati all’accoglienza e all’allevamento di bambini molto piccoli ossia di neonati illegittimi, abbandonati o in pericolo di abbandono, e
gli orfanotrofi dove sono accolti ed educati i bambini orfani, e a cui vengono anche affidati minori abbandonati o maltrattati dai genitori naturali,
è un obiettivo che è stato raggiunto nel 2008.
Salvo pochissime eccezioni tutti gli istituti per minori sono stati chiusi o – come previsto dalla Legge 149 – riorganizzati in piccole strutture.

In alternativa la Legge 149 predispone due strade:
• l’accoglienza dei minori in piccole comunità-famiglia (al di sotto delle 12 unità) le cui caratteristiche le rende somigliante ad una famiglia. Devono avere determinati requisiti e ottenere un’autorizzazione da parte del Comune in cui operano, e
• l’affido come possibile fase transitoria verso l’adozione vera e propria.

A scegliere le strutture è la magistratura su segnalazione degli assistenti sociali che seguono il caso del minore.

Le prime case-famiglia hanno avuto origine tra l’inizio degli anni sessanta e la fine degli anni settanta del XX secolo, da esperienze di condivisione diretta con persone in situazione di handicap, che a quel tempo erano per lo più confinate in istituti nei quali l’attenzione era posta soprattutto sulla patologia e sulla sua terapia. Spostando l’attenzione sulla globalità della persona venne l’esigenza di creare strutture che ne permettessero anche un inserimento sociale ed una vita di relazione normale.

Nel 1964, a Pian di Scò, in provincia di Arezzo, nacque la prima casa-famiglia dell’Opera Assistenza Malati Impediti (OAMI) aperta da Mons. Enrico Nardi, per potere inserire i disabili in una piccola comunità, anziché in grandi strutture.
Nel 1973 a Coriano, in provincia di Rimini, sotto la guida di Don Oreste Benzi, nacque la prima casa-famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII.

 

Durante il mio tirocinio scolastico ho avuto modo di conoscere una caposala di un ospedale di provincia, per me una figura molto importante, che mi ha insegnato molte cose che non ho mai dimenticato.
Un giorno mentre eravamo al nido, mi parlò dei due neonati che erano in incubatrice. Uno dei due era un maschietto, nato a termine era sano e forte, ma a quel tempo si usava sottoporre comunque il neonato ai raggi ultravioletti, per un tempo variabile, per prevenire l’ittero fisiologico.

L’ittero fisiologico è la colorazione della pelle che diventa giallognola a causa di un livello maggiore di bilirubina nel sangue, dovuta al fatto che nel neonato il fegato è ancora immaturo. Se i livelli sono modesti, oggi ci si limita ad esporre il bambino alla luce indiretta del sole, ponendolo ad esempio accanto a una finestra.
Mentre nel neonato solitamente è una condizione fisiologica che si risolve in breve tempo, nell’adulto è frequentemente segno di patologia.
Durante lo svezzamento, una colorazione giallognola può essere causata da una quantità troppo elevata di carote nel brodo vegetale, che comporta un eccesso di presenza di pigmento arancio, noto come carotene, nel sangue.

L’altro neonato era una bambina che invece non stava proprio bene, era nata con un problema al cuore per il quale a quel tempo non si poteva fare nulla. Difficilmente sarebbe sopravvissuta, mi sussurrò la caposala.
Era una bambina fortemente voluta dai genitori, erano riusciti a concepirla dopo molto tempo e dopo più tentativi andati male, era in pratica la loro ultima speranza. La cosa mi toccò molto profondamente, erano drammi umani sovente sottaciuti fuori dagli ospedali, considerati una fatalità a cui bisognava essere preparati.

Con tono un po’ indispettito ella disse: «Certo è ingiusto tutto questo: la bambina appena nata sta già combattendo la sua battaglia e ha due genitori disperati che l’aspettano; il bambino che è un fiore, nessuno l’attende». Era stato infatti affidato momentaneamente alle cure dell’ospedale perchè la madre, non so per quale motivo ma era un suo diritto, aveva rinunciato a tenerlo con sè.

PARTO IN ANONIMATO

In Italia è in vigore una legge dal 1983, secondo quanto previsto dal DPR 396/2000, art. 30, comma 1, sul parto in anonimato.

La nascita di un bambino è un evento straordinario nella vita di una donna, che incide profondamente nella sua vita concreta, emotiva, relazionale.
Non tutte le donne riescono ad accogliere la loro maternità, per una complessità di motivazioni che occorre ascoltare, comprendere e riconoscere.

Occorre sostenere, accompagnare, informare le donne, affinché le loro scelte siano libere e consapevolmente responsabili. E’ fondamentale la relazione della comunicazione con la donna.

In ospedale, al momento del parto, serve garantire la massima riservatezza, senza giudizi colpevolizzanti ma con interventi adeguati ed efficaci, per assicurare – anche dopo la dimissione – che il parto resti in anonimato.
La donna che non riconosce e il neonato, sono i due soggetti che la legge deve tutelare, intesi come persone distinte, ognuno con specifici diritti.

La legge consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’Ospedale dove è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”.

L’immediata segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni della situazione di abbandono del neonato non riconosciuto, permette l’apertura di un procedimento di adottabilità e la sollecita individuazione di un’idonea coppia adottante.

(Testo completo)

 

Malgrado queste garanzie offerte dalla legge, si verificano ancora oggi casi di abbandono neonatale, per cui in alcune grandi città si è ritenuto necessario ripristinare le antiche ruote, naturalmente in una forma più avanzata dal punto di vista tecnologico e sanitario. Oltre a garantire riservatezza e anonimato, forniscono assistenza e soccorso ai neonati abbandonati.

LA RUOTA DEGLI ESPOSTI

La ruota o rota degli esposti era una bussola girevole di forma cilindrica in cui era possibile appoggiare, senza essere visti dall’interno, l’“esposto” ossia il neonato abbandonato (da cui deriva il cognome “Esposito” e similari). In genere vicino alla ruota c’era una campanella per avvertire della presenza del bambino. Dall’interno veniva poi fatta girare la ruota e si poteva prendere il neonato per dargli le prime cure.
Per un eventuale successivo riconoscimento da parte di chi l’aveva abbandonato, al fine di testarne la legittimità, venivano inseriti nella ruota assieme al neonato monili, documenti o altri segni distintivi.

Fin dall’antichità l’abbandono dei neonati era un’uso abbastanza diffuso presso diverse popolazioni, come nell’antica Roma e nella Grecia antica. I trovatelli, spesso raccolti dai mercanti di schiavi venivano affidati a una balia, per poi essere venduti appena erano in grado di lavorare.
Nel Medioevo tale fenomeno diminuì per effetto della morale cristiana, ma riprese vigore a partire dal XVI secolo fino a raggiungere proporzioni enormi nell’Ottocento a causa della povertà e della miseria della popolazione spesso sottoposta al latifondo.
Molti con la rivoluzione industriale decisero di abbandonare la campagna spostandosi nelle grandi città per tentare di migliorare la propria vita. Ma le famiglie operaie non riuscivano a mantenere più di 4-5 figli alla volta, e ogni nuova nascita era un problema per l’economia familiare, anche perché spesso le donne lavoravano come operaie e non avevano molto tempo da dedicare alla cura dei bambini piccoli.
Tant’è che in molte città venne collocata una ruota degli esposti nei pressi delle chiese, ed era considerata dalle famiglie povere come una forma assistenziale che veniva offerta loro. Dapprima affidati a una balia (spesso una donna che aveva appena perso un neonato), terminato il periodo di allattamento finivano in un brefotrofio, dove l’indice di mortalità dei trovatelli era molto alto, e infine in un orfanotrofio sperando di essere adottati da qualche buona anima.
Ai bambini abbandonati si davano comunemente cognomi convenzionali, con varianti da città a città, spesso dal significato religioso affinchè proteggessero i bambini.

Era usanza, come si racconta nel film L’albero degli zoccoli ambientato sul finire del 1800, esortare giovani coppie di sposi a prendersi cura di uno di questi bambini abbandonati beneficiando di una piccola dote che li accompagnava. Vista la povertà del tempo, era un buon modo per entrambi di iniziare una nuova vita famigliare.

 

Mentre ero lì ad imparare dalla caposala, accadde quello che ella temeva accadesse. La neonata ebbe un’improvvisa crisi ed ella con solennità, come era d’uso fare, le somministrò il sacramento del battesimo poco prima che spirasse pronunciando la formula di rito.

Sapevo dai racconti di mia madre delle piccole croci bianche adornate di angeli che vedevo sul piccolo appezzamento del cimitero; vi riposavano i bambini morti in tenera età, i bambini non battezzati che anzichè salire al Paradiso sarebbero rimasti nel Limbo. Ciò mi dava una profonda tristezza e nel contempo mi irritava parecchio: ma che colpa potevano avere questi piccoli esseri?

Leda

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *