All’uscita del film L’albero degli zoccoli, se non ricordo male, nacque una certa polemica che un po’ oscurò il film, per come veniva rappresentata l’uccisione degli animali. Un po’ raccapricciante in effetti, ma documentava quella che era la realtà di quel tempo. Già tra gli anni 60-70 le procedure erano cambiate. Molte famiglie di origini modeste erano solite acquistare un maiale presso gli allevatori, perchè era un tipo di carne che aveva un costo più contenuto e poteva essere conservata per tutto l’anno.

Ricordo che mi spaventavo ogni volta al forte sparo che tramortiva l’animale e subito dopo “el masciaro” (letto con la c) si metteva all’opera per la macellazione che avveniva come nel film. La suddivisione delle varie parti si faceva in una stanza opportunamente preparata con gli attrezzi e i tavoli disinfettati. Un gran trambusto, tra il fumo dell’acqua bollente che veniva rovesciata sui tavoli, ognuno aiutava come poteva.
El masciaro” con un vocione dava ordini a tutti, abilmente e velocemente tagliava, suddivideva e salava; macinava altra carne che insaccava nei budelli, li legava e picchiettava accuratamente lasciando minuscoli fori da cui fuoriusciva il liquido in eccesso. Salsicce, salami, soppresse, pancette, cotechini rimanevano a riposare e ad asciugare, per poi finire appesi in alto in cantina.
Nel suo lavorare alacremente, “el masciaro” trovava anche il tempo per raccontare qualche aneddoto divertente a noi bambini. Ci dava un po’ di carne macinata che appiattivamo bene e correvamo a metterla a cuocere sulla piastra della stufa a legna. Una bontà unica!
Era buono infondo quell’omaccione grande e grosso, che portava un enorme grembiale e un cappello morbido a tesa larga, con una barba nera sempre rasata, aveva pure un grosso porro vicino al naso.
Io me lo immaginavo così Mangiafuoco di Pinocchio!
Del maiale veniva usato praticamente tutto, anche il grasso: con lo strutto nella padella di ferro si cuocevano croccanti frittelle durante il Carnevale, una parte era destinata a produrre tavolette di sapone che sbiancava e rendeva morbida la biancheria.

Ora i tempi sono cambiati e si è acquisito maggior sensibilità e rispetto verso gli animali, tanto che esistono norme severe in fatto di macellazione.

LA MACELLAZIONE

Il Decreto Legislativo 1 settembre 1988, n.333 regolamenta e applica la direttiva europea 93/119/CE art.3 e il successivo Regolamento della Comunità Europea 1099/2009 del 24 settembre 2009 circa la struttura e le varie operazioni che devono essere condotte in modo da evitare e ridurre al minimo l’ansia e la sofferenza agli animali DURANTE LA MACELLAZIONE O L’ABBATTIMENTO. Il compito di accertare il rispetto della loro conformità e idoneità, è affidato al veterinario ufficiale.
In Italia è consentita la macellazione a domicilio per autoconsumo per le specie suina, ovicaprina, volatili da cortile e conigli. Per altre specie al fine di garantire l’idoneità e la sicurezza delle carni è obbligatorio rivolgersi a uno stabilimento autorizzato.

 

Esiste una diatriba riguardo al metodo di abbattimento dell’animale: in genere in Europa si pratica il metodo della “macellazione pietosa” che prevede lo stordimento che toglie sensibilità, coscienza e riflessi all’animale.
In altre culture, come ad esempio quella ebraica e islamica ciò non è previsto, ma l’animale comunque deve essere trattato con “rispetto e compassione“. È espressamente proibito (Islam) picchiare gli animali da macellare o impaurirli (si vede nel film la vedova Runk intimare agli uomini di non farlo).
In entrambe le religioni è stabilito che l’operazione deve essere condotta solo da un adulto addestrato, in possesso dei requisiti, che deve conoscere i precetti della religione sulla macellazione affinchè la carne risulti idonea alla consumazione (certificata Halal).
L’atto viene eseguito con un intervento rapido (nell’Islam l’animale viene bendato) secondo una tecnica precisa, veloce e indolore e la carne deve essere dissanguata.
C’è da stabilire se lo stordimento degli animali con l’elettronarcosi, che è il sistema più diffuso, non sia un trauma di eccessiva violenza per essere inflitto ad un animale vigile, e l’intervallo tra esso e la successiva macellazione non causi più sofferenza rispetto al metodo più rapido e preciso della macellazione rituale.

Altra diatriba in atto riguarda l’affermazione che per l’uomo non sia necessaria la carne. L’uomo biologicamente è considerato un onnivoro, ossia un organismo che si nutre di una ampia varietà di alimenti. Che sia carnivoro lo dimostra la dentatura stessa.

I Carnivori hanno in comune i denti canini sempre molto robusti, incurvati verso l’interno e appuntiti, la loro funzione è quella di afferrare, tenere salda ed eventualmente uccidere la preda. Il quarto premolare superiore e il primo molare inferiore (denti ferini) sono particolarmente taglienti e vengono utilizzati per lacerare la carne e frantumare le ossa. Dietro al dente ferino i molari tendono a ridursi al punto che nei felini, che hanno la dentatura carnivora più specializzata, tale dente è rudimentale.

Altresì non è da considerarsi erbivoro, in quanto non è in grado di digerire la cellulosa, e non è nemmeno un ruminante, specie animale che pratica la doppia masticazione.

Il ruolo funzionale dell’erbivoro nella catena alimentare è quello di trasformare le molecole vegetali (cellulosa, amido), in molecole animali (glicogeno), che poi potranno essere assimilate dai carnivori o dai decompositori.

Ciò non esclude il fatto che l’uomo possa prediligere una dieta più vegetaRiana, che non esclude alimenti di origine animale come uova, latte e suoi derivati o limitare l’uso della carne e del pesce, l’importante è mantenere un’alimentazione varia, sana ed equilibrata.

A mio parere un forte punto interrogativo occorre porsi di fronte alla dieta vegetaLiana e vegana: entrambe prevedono cibi rigorosamente vegetali, si esclude ogni derivato animale, persino il miele in quella vegana.

Premesso che l’essere umano quando nasce si nutre esclusivamente di latte, in aggiunta al fatto che non appartiene alla specie erbivora, ciò sta a dimostrare che la dieta vegetaLiana e quella vegana sono due regimi alimentari non corretti, sbilanciati o insufficienti, non per niente spesso viene associato l’uso di integratori alimentari che si può immaginare di naturale abbiano ben poco, e la loro effettiva efficacia è sempre stata messa in discussione.

Merita invece considerazione il concetto etico espresso dal Movimento Vegetariano e da quello Vegano  una sua derivazione) che invita a:  

uno stile di vita che si fonda sul rifiuto – nei limiti del possibile e praticabile – di ogni forma di sfruttamento degli animali (per alimentazione, abbigliamento, spettacolo e ogni altro scopo).

Una pratica molto diffusa in Oriente, espressione del rifiuto della violenza e rispetto per la vita animale.
Tale pensiero in sostanza non è quello di evitare a priori l’uccisione di ogni forma di vita naturale (anche camminando indirettamente si causa la morte di molti insetti, per esempio), ma è nella ragionevolezza del non partecipare allo sfruttamento e uccisione sistematica, intenzionale e non necessaria degli animali, evitando il sostegno ad attività quali l’allevamento, la sperimentazione, la caccia praticati in modo sconsiderato. Il principio alla base è che l’uomo non ha il diritto di disporre della vita degli altri animali.
Per chi adotta questa filosofia non vi sono criteri fissi e prestabiliti a cui si deve aderire incondizionatamente, occorre cautela nel caso di fasce d’età e condizioni fisiologiche particolari. Ciò che si auspica è l’adottare nella pratica quotidiana abitudini e scelte etiche adeguate.

«Oggi nessuno ha bisogno di mangiare la carne, indossare una pelliccia o usare prodotti di origine animale per sopravvivere. Trattiamo in questo modo gli animali perché possiamo permettercelo.»

di Kapil Komireddi

In ogni cosa ci vuole la giusta misura e va scoraggiato a priori ogni estremismo. È inconfutabile che l’Occidente abbia, e stia esagerando riguardo agli animali, basti pensare all’abuso di estrogeni, antibiotici, farmaci in genere usati per accelerare la crescita dell’animale, alla diffusione di malattie virali, come ad esempio il morbo della mucca pazza (Bse) di cui si registrò un’impennata nel 2001 con conseguenze pesanti sull’economia e la zootecnia europea. Per arginare il rischio di diffusione della Bse, infatti, ingenti furono gli abbattimenti dei capi bovini infetti, la distruzione delle farine di origine animale che in Europa dal 1994 erano state messe al bando a scopo precauzionale, il blocco della vendita della carne bovina con l’osso fino al 2006.
Ben si ricordano gli appassionati della ‘fiorentina’, uno dei piatti più conosciuti della cucina toscana, che è mancata dalle tavole per quasi cinque anni! Ma…

Non tutto il male viene per nuocere. (Proverbio)

Dal 2002 l’Unione europea ha provveduto a introdurre un sistema obbligatorio di etichettatura che traccia l’animale dalla nascita, all’allevamento, alla macellazione, e un codice di identificazione rappresenta una vera e propria carta d’identità del bestiame.
In Italia gli allevatori nelle loro stalle hanno investito sulla qualità e hanno salvato dall’estinzione esemplari di storiche razze autoctone come la chianina, la romagnola, la marchigiana, la podolica e la maremmana.

Dal punto di vista delle scelte etiche ci sarebbero altre argomentazioni:
ad esempio la sterilizzazione degli animali attraverso la rimozione degli organi di riproduzione non è un intervento discutibile?
E perchè un animale non può vivere libero?
È giusto che le esigenze degli animali siano subordinate a quelle dell’uomo?
È giusto che un animale non domestico sia tolto dal proprio habitat per diventare un animale da compagnia? E così via…

È necessario che ognuno si renda responsabile delle scelte che fa, anche in funzione del rispetto dei diritti dell’altro.

Leda

L’idea che l’uomo sia superiore alle bestie e che per questo ha il diritto di sfruttarle e di ucciderle a piacimento in India è semplicemente inconcepibile. La natura non è lì perché l’uomo ne faccia quel che vuole. Niente è suo. E se l’uomo si serve di quel che c’è, deve dare qualcosa in cambio: almeno un ringraziamento agli dei che l’hanno creato. E poi, l’uomo stesso è parte della natura. La sua esistenza dipende dalla natura e l’indiano sa che «la rana non beve l’acqua dello stagno in cui vive».

In qualche modo anche noi in Occidente cominciamo a renderci conto che qualcosa non funziona nel nostro modo di comportarci con la natura. A volte abbiamo persino l’impressione che la nostra vantata civiltà, tutta fondata sulla ragione, sulla scienza e sul dominio di ciò che ci circonda, ci abbia portati in un vicolo cieco, ma tutto sommato pensiamo ancora che proprio la ragione e la scienza ci aiuteranno a uscirne. Così continuiamo imperterriti a tagliare foreste, inquinare fiumi, seccare laghi, spopolare oceani, allevare e massacrare ogni sorta di animali perché questo – ci dicono gli scienziati economisti – produce benessere. E col miraggio che più benessere vuol dire più felicità, investiamo tutte le nostre energie nel consumare, come se la vita fosse un eterno banchetto romano in cui si mangia e si vomita per poter rimangiare.

Quel che è sorprendente è che facciamo ormai tutto questo con grande naturalezza, ognuno convinto che quello è il suo diritto. Non ci sentiamo in alcun modo parte del tutto. Al contrario. Ognuno si vede come un’entità separata, a sé; ognuno si sente forte del proprio ingegno, delle proprie capacità e soprattutto della propria libertà. Ma è proprio questo sentirci liberi, disgiunti dal resto del mondo, a causarci un gran senso di solitudine e di tristezza. Diamo per scontato solo quel poco che abbiamo attorno e con questo limitato punto di vista non riusciamo a sentire la grandezza del resto di cui siamo pur parte. I rishi direbbero che abbiamo perso il nostro «collegamento cosmico», che siamo diventati come kup manduk, la rana del pozzo, protagonista di una vecchia storia indiana.

Un giorno, nel piccolo pozzo in cui una rana è vissuta tutta la sua vita, salta una rana che dice di venire dall’oceano.
«L’oceano? E cos’è?» chiede la rana del pozzo.
«Un posto grande, grandissimo», dice la nuova arrivata.
«Grande come?»
«Molto, molto grande.»
La rana del pozzo traccia con la zampa un piccolo cerchio sulla superficie dell’acqua:
«Grande così?»
«No. Molto più grande.»
La rana traccia un cerchio più largo.
«Grande così?»
«No. Più grande.»
La rana allora fa un cerchio grande quanto tutto il pozzo che è il mondo da lei conosciuto.
«Così?»
«No. Molto, molto più grande», dice la rana venuta dall’oceano.
«Bugiarda!» urla kup manduk, la rana del pozzo, all’altra. E non le parla più.

da Un altro giro di giostra, Tiziano Terzani


LA NUOVA AZIENDA AGRICOLA

“La creatività, gli ideali e il coraggio della gioventù di tutto il mondo devono essere mobilitati per creare una collaborazione globale, al fine di realizzare uno sviluppo sostenibile e assicurare un migliore futuro per tutti.”

(Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo, Conferenza delle Nazioni Unite, Rio de Janeiro, giugno 1992.)

Lo sviluppo sostenibile e la salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità, per assicurare un migliore futuro per tutti, sono obiettivi da raggiungere a partire da principi proclamati dalle Nazioni Unite, dalla Comunità Europea, dallo Stato Italiano, dalle associazioni ambientaliste etc.

Con la rinaturalizzazione dei paesaggi agrari e boschivi di pianura e di collina si propone di raggiungere un equilibrio tra esigenze dell’uomo e della natura e tra recupero delle tradizioni e metodi innovativi nella conduzione dell’azienda. Il passaggio da una campagna delle origini, che doveva produrre solo nutrimento materiale, a quella attuale, in evoluzione, che propone anche di accogliere, divertire, istruire ed educare consente all’agricoltore e all’operatore forestale di valorizzare la campagna come paesaggio rurale da conoscere, apprezzare e di dare quindi un esempio di sviluppo sostenibile e integrato in agricoltura. In questo senso l’agricoltura diventa “agricultura” e si può inserire anche nel mercato culturale dei beni e dei servizi simbolici, ambientali, paesaggistici, di benessere fisico e psichico.

“Dove tutto deve ancora succedere, germogliare, affacciarsi, dirci tutto e bisogna ascoltare, mettere, tendere l’orecchio ovunque per non perdere qualche soffio sussurro o grido…”,
ha molti spazi dove può esprimersi liberamente, la Natura, dove non è costretta o addomesticata crea angoli di Paradiso (che dal parsi vuol dire parco, giardino).

Il metodo di coltivazione biologica aumenta la biodiversità in tutti gli anelli della catena alimentare, con la presenza di un maggior numero di animali selvatici e/o piante. I restauri degli edifici aziendali sono eseguiti con le tecniche dell’architettura bioecologica e per il riscaldamento le caldaie a biomassa legnose vengono alimentate con i prodotti della potatura delle siepi e del bosco.

L’AGRICOLTURA BIOLOGICA

È un tipo di agricoltura che considera l’intero ecosistema agricolo, sfrutta la naturale fertilità del suolo favorendola con interventi limitati, vuole promuovere la biodiversità dell’ambiente in cui opera e esclude l’utilizzo di prodotti di sintesi e degli organismi geneticamente modificati (OGM).

I principali obiettivi dell’agricoltura biologica così come sono stati definiti dalla Federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica (International Federation of Organic Agricolture, IFOAM) sono:

  • Trasformare il più possibile le aziende in un sistema agricolo autosufficiente attingendo alle risorse locali;
  • Salvaguardare la fertilità naturale del terreno;
  • Evitare ogni forma di inquinamento determinato dalle tecniche agricole;
  • Produrre alimenti di elevata qualità nutritiva in quantità sufficiente;

La filosofia dietro a questo modo di coltivare le piante e allevare gli animali, che fa riferimento a tecniche e principi antecedenti all’introduzione dei pesticidi in agricoltura avvenuta negli anni 70, non è solamente legata all’intenzione di offrire prodotti senza residui di fitofarmaci o concimi chimici di sintesi, ma anche (se non di più) alla fondata volontà di non determinare nell’ambiente esternalità negative, cioè impatti negativi sull’ambiente a livello di inquinamento di acque, terreni e aria.

Nella pratica biologica sono centrali soprattutto gli aspetti agronomici: la fertilità del terreno viene salvaguardata mediante l’utilizzo di fertilizzanti organici, la pratica delle rotazioni colturali e lavorazioni attente al mantenimento (o, possibilmente, al miglioramento) della struttura del suolo e della percentuale di sostanza organica; la lotta alle avversità delle piante è consentita solamente con preparati vegetali, minerali e animali che non siano di sintesi chimica (tranne alcuni prodotti considerati “tradizionali”) e privilegiando la lotta biologica.

Gli animali vengono allevati con tecniche che rispettano il loro benessere e nutriti con prodotti vegetali ottenuti secondo i principi dell’agricoltura biologica. Sono evitate tecniche di forzatura della crescita e sono proibiti alcuni metodi industriali di gestione dell’allevamento.
Un’interpretazione del concetto di agricoltura biologica è il principio di autorganizzazione.

IL PRINCIPIO DI AUTORGANIZZAZIONE

Come definito dall’attivista indiana Vandana Shiva, per principio di autorganizzazione si intende un’interpretazione del concetto di agricoltura biologica tesa alla sovranità alimentare e a una più radicale opposizione alla moderna agricoltura industriale.

Il paradigma descrive la capacità di un ecosistema agricolo di perpetuarsi da sé, senza interventi esterni (in un ciclo sostanzialmente chiuso): seguendo questo principio, la fertilità del suolo sarebbe mantenuta grazie al riciclo interno del materiale organico prodotto e usato come fertilizzante, senza integrazioni con prodotti di sintesi provenienti dall’esterno; il controllo dei parassiti sarebbe favorito dalla promozione della biodiversità locale e quindi degli antagonisti biologici; l’acqua necessaria è ottenuta col riciclo dell’acqua piovana e aumentando l’efficienza dell’irrigazione, riducendo lo sfruttamento delle risorse idriche; le avversità sono contrastate privilegiando le varietà locali, spesso più resistenti di quelle commercializzate essendo meglio adattate alla situazione pedoclimatica locale.

Socialmente, lo scopo è favorire un’agricoltura tesa al nutrimento e all’occupazione della popolazione, piuttosto che all’esportazione e al mercato, e alla conservazione delle tradizioni e tecniche colturali locali piuttosto che all’importazione di tecnologie e pratiche estere, con un occhio di riguardo per i piccoli produttori.

L’agricoltura biologica su scala industriale, che si limita a seguire il disciplinare di produzione per ottenere la certificazione e l’etichetta senza rispettare il principio dell’autorganizzazione, appare un controsenso a chi lo vede come inscindibile dal concetto di biologico.

Tratto da Wikipedia

«Noi possiamo sopravvivere come specie solo se viviamo in accordo alle leggi della biosfera. La biosfera può soddisfare i bisogni di tutti se l’economia globale rispetta i limiti imposti dalla sostenibilità e dalla giustizia.
Come ci ha ricordato Gandhi: “La Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di alcune persone”.
»

Vandana Shiva

LA FATTORIA DIDATTICA

Le attività e i percorsi proposti ai visitatori sono concepiti con l’intenzione di dare un piccolo contributo alla diffusione del patrimonio collettivo di conoscenze che offrono l’ambiente, i paesaggi agricoli e le tradizioni. Un’occasione per far sperimentare, apprezzare e godere valori e sensazioni del mondo agricolo, e di dare la possibilità concreta di verificare quale sarebbe l’entità della perdita se non si seguissero le indicazioni espresse dagli organismi internazionali, comunitari, nazionali e locali in tema di tutela ambientale.
La fattoria didattica, coinvolgendo piccoli e adulti auspica che “i problemi ambientali vengano affrontati al meglio con la collaborazione, ciascuno al proprio livello, di tutti i cittadini interessati” (principio 9 e 10 della Dichiarazione di Rio) e che questi ultimi promuovano attivamente la conservazione e la tutela del territorio agricolo.

di Maria Dalla Francesca, titolare dell’Azienda “Il filo d’erba” Padova, agosto 2005

 

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