Dal 1840 al 1920 gli Stati Uniti furono raggiunti da un flusso migratorio variegato e senza precedenti proveniente dai luoghi più disparati.

Decine di migliaia di operai, in prevalenza cinesi e irlandesi, ma anche italiani, tedeschi e polacchi giunsero nelle sconfinate praterie dell’Ovest per la realizzazione della Prima ferrovia transcontinentale, un progetto ambizioso fortemente voluto dal Presidente Abraham Lincoln con il “Pacific Railroad Act” del 1862, come simbolo di progresso e di unità di una nazione, collegando il territorio degli Stati Uniti dalla costa atlantica all’oceano Pacifico.

Il cavallo d’acciaio (The Iron Horse) un film muto del 1924 di John Ford, si sofferma sulla vita di questi operai che superando le grandi pianure erbose, le alte montagne innevate ed i profondi canyons rocciosi, lavoravano in condizioni spesso difficili e pericolose, attaccati dai nativi ribelli o da bande di ogni risma, sotto la protezione di veri e propri eserciti pagati dalle compagnie ferroviarie.

Il viaggio è un motivo dominante del western classico di Ford, che nel film Ombre rosse del 1939 è rappresentato da una diligenza, mezzo di trasporto più veloce e più ‘intimo’, comunque alla mercé del caso, i cui passeggeri sono in stretto contatto tra loro pur rimanendo degli estranei.

La diligenza appare come simbolo della comunità civile: i nove passeggeri corrispondono a stereotipi sociali e disegnano un sistema di personaggi conflittuale, dove si contrappongono bene e male, rispettabilità (intesa come status sociale) e moralità (come valori profondi dell’individuo), legalità e illegalità. I rappresentanti ufficiali della rispettabilità si rivelano corrotti e immorali (il banchiere Gatewood), o quantomeno, inizialmente, rigidi e ingiusti (Lucy, moglie di un ufficiale di cavalleria), mentre la prostituta Dallas e il fuorilegge Ringo, non rispettabili secondo i canoni convenzionali, sono i depositari di una moralità profonda e di autentici valori di lealtà e giustizia.
(Tratto da wikipedia)

In Sentieri selvaggi del 1956, uno dei capolavori di John Ford, si affronta il tema dell’odio. Ambientato nel 1868 al termine della Guerra di secessione, un veterano dell’esercito dà la caccia agli indiani. La trama si ritiene sia ispirata a una storia vera: del rapimento di una bambina, che visse a lungo con i Comanche, integrandosi a tal punto da sposarne il capo e ad avere dei figli.
Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Alan Le May, che condusse personalmente ricerche su 64 casi di bambini rapiti dagli indiani.

John Ford (1894-1973) è riconosciuto come uno dei più grandi registi della storia del cinema soprattutto per l’imponente produzione di film western, alla cui fama contribuirono attori di grande successo popolare, in particolare John Wayne che nel ruolo dell’eroe senza macchia e senza paura, rude ma generoso, è considerato una leggenda del cinema.

Tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento i film western trovarono una rinnovata popolarità con il western all’italiana. Un genere che inizialmente fu visto con diffidenza dagli americani poiché proveniva da autori europei che il west non lo conoscevano; i film inoltre erano girati generalmente in Italia o in Spagna con risorse finanziarie in principio molto limitate.
Il genere ben presto divenne noto con il termine “spaghetti-western”, alle differenze stilistiche si aggiunse anche una sorta di dissacrazione del mito del west. Così, mentre nei western tradizionali statunitensi sia i ‘buoni’ che i ‘cattivi’ tendevano ad avere tratti caratteriali idealizzati e stereotipati, nei western all’italiana tutti i personaggi, anche quelli “positivi”, apparivano in genere più cinici, trasandati, sporchi, ma in fondo più realistici. Ne è risultata un’immagine certamente meno epica e in genere molto più dura di quella dell’Ottocento americano nelle regioni del West.

Maestro indiscusso e massimo esponente del genere è da ritenersi il regista Sergio Leone, che con la cosiddetta Trilogia del dollaro si guadagnò la stima e il rispetto dei colleghi statunitensi e una crescente popolarità presso le platee internazionali, insieme alle colonne sonore di Ennio Morricone.

La trilogia di Sergio Leone assunse anche il termine di “Trilogia dell’Uomo senza nome”, in quanto il protagonista è sempre lo stesso uomo interpretato da un giovane Clint Eastwood al quale vennero accostati in un crescendo diversi attori italiani. La trilogia comprende:

Per un pugno di dollari del 1964, un remake di La sfida del samurai (Yojimbo) di Akira Kurosawa (1961) di cui mantenne solo la struttura di base. Il film è ambientato in Messico, dove un pistolero solitario viene in contatto con due famiglie dominanti della città che sono in lotta tra loro, l’una dedita al commercio di alcol e l’altra alla vendita delle armi, alle quali decide di vendersi apparentemente per un pugno di dollari. Sergio Leone introduce così un eroe negativo che è completamente a suo agio nella violenza che lo circonda.
La colonna sonora ebbe grande successo ed è celebre per il brano fischiato, eseguito dal maestro Alessandro Alessandroni.

Nel film Per qualche dollaro in più del 1965 siamo nel Nuovo Messico, il capo di una feroce banda di desperados (leggendari banditi del West, fuorilegge e assaltatori di banche, di treni e di diligenze) rinchiuso in un carcere messicano viene liberato dai suoi compagni. Due cacciatori di taglie si mettono sulle loro tracce: l’uno, un giovane cacciatore di professione allettato dai 10.000 dollari della taglia, l’altro, un anziano ex ufficiale sudista colto e raffinato mosso da un’altra ragione, che sarà svelata solo alla fine del film. Mentre il capo manda i componenti della sua banda allo sbaraglio sacrificandoli spietatamente, i due cacciatori di taglie si alleano. La resa dei conti giungerà quando l’orologio-carillon finirà di suonare.

Il buono, il brutto, il cattivo del 1966 vede come protagonisti tre mascalzoni che attraversando la Guerra di secessione americana, sono alla ricerca di un tesoro.
Il buono: l’Uomo senza nome cacciatore di taglie, un pistolero sempre col sigaro in bocca, cattura il brutto: un bandito goffo e loquace dotato del senso dell’umorismo, braccato per omicidio. Ma dopo aver intascato la taglia, imprevedibilmente lo libera. Un gioco perverso che i due mettendosi d’accordo ripetono, ma fino a un certo punto.
Alla beffa messa in atto dai due assiste il cattivo: uno spietato sicario chiamato Sentenza, che è alla ricerca di una misteriosa cassa piena di dollari.
I tre finiscono per affrontarsi nella scena del cosiddetto “triello”, in cui armati si tengono sotto tiro a vicenda. Una sequenza destinata a rimanere famosa nella storia del cinema, esemplare sia per la ripresa sia per il montaggio sia per l’uso sapiente della colonna sonora, firmata dal grande musicista Ennio Morricone che per ben 7 minuti, senza alcun dialogo, lascia parlare con gli sguardi i protagonisti.
Molto famoso è anche il motivo principale, assomigliante all’ululato del coyote, una melodia composta da due note.

Altro elemento che ha reso questo genere molto caratteristico e di culto è lo stile delle locandine dei film, per la maggior parte realizzate dall’italiano Renato Casaro.

Umanità e ferocia coesistono nei personaggi su uno sfondo dominato dalla follia della guerra. A differenza dei film mitizzanti del western statunitense, in questi film traspare il lato violento e brutale; il protagonista non è quasi mai un eroe, ma più spesso un antieroe, mosso da interesse anziché da motivazioni idealistiche.

A questa trilogia Sergio Leone aggiunse successivamente il capolavoro monumentale C’era una volta il West del 1968, un affresco nostalgico dell’epopea del West al tramonto, in cui i personaggi acquistano un maggiore spessore umano e la magistrale abilità tecnica e narrativa del regista si fonde con un soggetto ricco di significati, incontrandosi idealmente con le tematiche crepuscolari del nuovo western statunitense. È il primo episodio della cosiddetta Trilogia del tempo di Leone, che proseguirà con Giù la testa (1971) e C’era una volta in America(1984).

Un altro grande maestro del western all’italiana fu Sergio Corbucci con film come Django (1966) interpretato da un esordiente Franco Nero, pellicola omaggiata da Quentin Tarantino col suo film Django Unchained;
Il grande silenzio (1967), che per le scene violente quando uscì in Italia venne vietato ai minori di 18 anni, film che è stato d’ispirazione per Tarantino per il suo film The Hateful Eight;
Il mercenario (1968) che si svolge durante la Rivoluzione Messicana con protagonista Franco Nero. La colonna sonora degli ultimi due film è di Ennio Morricone.

Come non si può dimenticare “Ringo”, interpretato da Giuliano Gemma nei due film Una pistola per Ringo e Il ritorno di Ringo entrambi del 1965 per la regia di Duccio Tessari, un altro grande maestro del western all’italiana, co-sceneggiatore del film Per un pugno di dollari dell’amico Sergio Leone. Ringo fu un personaggio che divenne molto popolare in Italia, un ruolo particolarmente conteso nei giochi di bambini tra gli anni 1960-70. Non a caso è stato sfruttato da diverse altre produzioni anche se non aveva nulla a che fare con l’originale.

A partire dagli anni Settanta gli spaghetti-western divennero un sottogenere del western all’italiana, una sorta di commedia, una parodia che riscontra grande successo, come il fortunato filone che vede protagonisti Bud Spencer e Terence Hill.

Fra le parodie del western all’italiana va senz’altro annoverato West and Soda, film di animazione del 1965, prodotto e diretto da Bruno Bozzetto. Celebre autore di lungometraggi e cortometraggi animati, molti dei quali vedono come protagonista il Signor Rossi, simbolo del cittadino italiano medio alle prese con il malcostume della nostra società, Bozzetto ha cooperato anche con Piero Angela realizzando dei filmati di divulgazione scientifica per Quark così da facilitare la comprensione dei concetti più difficili.

El Gringo, invece, è un personaggio immaginario protagonista di una omonimo fumetto italiano del genere western ideata da Max Bunker negli anni Sessanta edita dall’Editoriale Corno dal 1965 al 1968.

Gringo” con poncho e sigaro in bocca è anche il personaggio di una famosa pubblicità italiana ai tempi del Carosello, nata nel 1966 dall’idea geniale della Gamma Film, una società di distribuzione e doppiaggio fondata a Milano dai fratelli Gino e Roberto Gavioli nel 1953. Il cortometraggio, ispirandosi al successo degli spaghetti western, in un susseguirsi di frasi in rima…  “Quassù nel Montana tra mandrie e cowboy c’è sempre qualcuno di troppo tra noi”, racconta le storie di Gringo.

Roberto Gavioli pensò di utilizzare la semi-animazione o meglio la cosiddetta “animazione a scatto”: le immagini non sono riprese filmate, ma montaggi di fotografie e disegni animati a passo uno, tecnica innovativa e raffinata per l’epoca. Gringo, interpretato dall’attore Roberto Tobino, era un “perfetto Eastwood da Carosello”
(Marco Giusti, Il grande libro di Carosello, Milano 2004)

Uno degli ultimi film che si rifà al genere, fu Gli spietati (Unforgiven) del 1992 che vede Clint Eastwood, icona del genere, dietro la macchina da presa. Nei titoli di coda appare la significativa dedica: “a Sergio [Leone]” (la stessa che più di dieci anni dopo, nel 2003, Quentin Tarantino ha inserito nei titoli di Kill Bill: Volume 1 e Kill Bill: Volume 2). Un ultimo omaggio al Western all’italiana è stato fatto ancora da Quentin Tarantino nel suo Django Unchained del 2012, inserendo nella scena finale del film il tema principale della colonna sonora di Lo chiamavano Trinità….

Balla coi lupi del 1990 è un film diretto e interpretato da Kevin Costner nella parte del tenente John Dunbar, un ufficiale dell’Esercito Unionista della Guerra di secessione molto provato per gli orrori della guerra e intenzionato a non far più il proprio dovere, che tenta di suicidarsi. Il suo atto, scambiato per un’azione eroica, viene mitizzato e ciò gli procura la possibilità di scegliere il luogo dove curarsi la ferita.
Per una serie di fattori finisce a Fort Sedgwick, il presidio di frontiera più remoto abbandonato da tutti, dove rimane isolato ad occuparsi del ripristino dell’avamposto con la sola compagnia del cavallo Cisco, di Due Calzini, un lupo che lo osserva dalle praterie, e del suo diario dove annota ogni cosa che vede e gli succede.
L’uomo entra in contatto con la vicina tribù di indiani Sioux che è in lotta con i Pawnee, una tribù che è in combutta con i bianchi, e impara a conoscere la cultura di questo popolo nomade e a integrarsi nei loro usi e costumi dando un nuovo significato alla sua vita.
Dopo un drammatico scontro con l’esercito nordista di cui era parte, prende la decisione di cancellare definitivamente il proprio passato: diventa così Balla Coi Lupi in memoria dei primi tempi solitari.

Per quanto riguarda le serie televisive, molte sono le storie di frontiera raccontate.
Tanto popolare nei primi anni 70 è stata La casa nella prateria, che racconta la vita di una tradizionale famiglia americana in una sperduta fattoria del Minnesota tra il 1870-1890. Tra le varie vicissitudini vengono toccati temi molto importanti e sempre molto attuali come: l’adozione, l’alcolismo, il razzismo, la droga, la cecità, ecc.

È una serie TV che si ispira ai romanzi Little House (La piccola casa nella prateria) opera del 1943-1945 della scrittrice statunitense Laura Ingalls Wilder.

Ancora, Le avventure di Rin Tin Tin, un telefilm originalmente in bianco e nero e poi a colori, in cui si dà importanza al privilegiato rapporto tra il cane e l’uomo.  

Rin Tin Tin è un celebre cane da pastore tedesco protagonista di numerose opere di fiction per ragazzi (fumetti, film, serial cinematografici, serie televisive) realizzate soprattutto negli USA fra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. È un cane realmente esistito da cui ebbe origine una vera e propria dinastia di star.

A noi bambini di quegli anni, viene naturale associare a Rin Tin Tin un altro cane-eroe: Lassie, che fece la sua prima comparsa nel 1938 nel racconto breve Lassie Come Home (Torna a casa Lassie) dell’angloamericano Eric Knight.
È la storia di un fedele cane collie e di un ragazzino che vengono separati, ma Lessie lasciandosi guidare dall’istinto, coraggiosamente torna a casa percorrendo centinaia di miglia.
Fu così popolare In Italia che per decenni con il nome Lessie venne impropriamente denominata la razza canina Collie (o pastore scozzese).

Lassie, Rin Tin Tin e Strongheart, un cane da pastore tedesco che apparve in diversi film, tra cui un adattamento del 1925 del romanzo Zanna Bianca, hanno ottenuto una stella sull’Hollywood Walk of Fame (la passeggiata hollywoodiana della celebrità).

Le serie televisive di genere western degli anni Cinquanta hanno come soggetto un cavallo che stabilisce un particolare legame con un ragazzino, spesso orfano, che vive in un ranch.

La più famosa e di maggior successo trasmessa tra il 1955 e il 1960 (dal 1967 anche in Italia) è sicuramente Furia cavallo del West. Il telefilm racconta di un cavallo morello che è una furia, sia di nome che di fatto; catturato insieme ad altri cavalli selvaggi, sembra impossibile domarlo. Ci riesce Joey, figlio adottivo di Jim il proprietario del ranch, che si conquista l’affetto e l’amicizia di Furia.
Molto successo ebbe anche la sigla italiana del telefilm cantata da Mal e scritta da Luigi Albertelli con Guido e Maurizio De Angelis.

Nella serie TV Bonanza, il primo telefilm western in onda a colori trasmesso dal 1959 al 1973, è una saga famigliare più che altro maschile, le donne infatti sono veramente rare e di scarso rilievo.  Ambientato nel 1860, protagonista del telefilm è un clan famigliare molto unito formato da soli uomini, i Cartwright. Più che di pionieri qui si tratta di proprietari di un vasto ranch chiamato Ponderosa, un patrimonio da difendere.

Nel 2005 una miniserie tv dal titolo Into the west è stata prodotta da Steven Spielberg, pare sia ancora inedita in Italia, che egli stesso definisce come:

«un’enorme tela su cui narriamo le storie che hanno formato il nostro paese, come la corsa all’oro, la ferrovia, il selvaggio West e le guerre indiane che hanno condotto alla tragedia di Wounded Knee. E’ la storia di un’opportunità e dello scontro tra culture, della sopraffazione di un modo di vita su un altro».

La miniserie è stata distribuita nelle scuole pubbliche e private e nelle biblioteche “con la speranza – dice lo stesso regista/produttore – che il pubblico, anche quello studentesco, impari di più sulla varietà delle culture e l’interazione tra i popoli“.

La storia racconta le vicissitudini di due famiglie, l’una di pionieri della Virginia e l’altra di indiani Lakota, incontrando personaggi storici ed eventi verificatisi tra il 1825 e il 1890.

Dal punto di vista della cultura “indigena” speriamo di far capire le difficili condizioni delle famiglie indiane nella stessa maniera con cui “Radici” nel ’77 contribuì a sensibilizzare il pubblico sui neri in schiavitù

Steven Spielberg