Quella che volevo diventare

Avendo figli in età scolare mi capita di ripensare ai miei anni di scuola e ricordo periodi bui alternati a periodi meno bui, quasi felici, a volte spensierati.
I primi due anni di scuola elementare, quelli definiti di alfabetizzazione, in cui si riempivano quaderni e quaderni di aste, cerchi, numeri, lettere con un tratto leggero di matita, in cui si apprendevano i primi rudimenti della lingua italiana e della bella scrittura, che poi non era detto la si imparasse perchè si sa che la grafia è una cosa del tutto personale e non sempre l’estetica è sinonimo di bellezza.
Càpita, che dietro a una bella scrittura ci sia una personalità piatta e vuota, e dietro a una scrittura impossibile prevalga la pigrizia e un mancato rispetto dell’altro.

Quei due anni furono impegnativi. Ora, per come si è modificato il programma scolastico verrebbe da ridere definirli così, ma lo erano, eccome se lo erano! Ero felice di essere a scuola, avevo un buon rapporto con la maestra, di lei in particolare mi è rimasto il ricordo della sua gentilezza… peccato che il cancro se la sia portata via, l’ho saputo molti anni dopo del vero motivo per cui ci aveva lasciati e ci sono rimasta davvero male. Dopo di lei è iniziato il periodo buio, non so se sia cominciata prima l’emulazione per una mia compagna che usava fare scena muta alle interrogazioni, per protesta diceva, ma non so per quale motivo poi, o se fosse la nuova maestra che non sorrideva mai e quelle poche volte che lo faceva la sua bocca diventava come la fessura di un lettore DVD. So che nei successivi tre anni ho vissuto un disagio che non è stato compreso e che mi ha rinchiuso in una specie di limbo.
Solo al quinto anno in previsione dell’esame di stato la maestra provò in qualche modo a farmi uscire, finalmente conscia che qualcosa mi bloccava, e con l’aiuto di mia madre che mi parlò a quattr’occhi riuscii a guadagnarmi almeno una promozione stiracchiata.
Alla scuola media trovai una realtà completamente diversa, mischiata ai compagni di altre frazioni della cittadina in cui vivevo conobbi altre realtà, altri modi di rapportarsi alla scuola; i professori, ciascuno ben definito nella sua materia erano investiti di una certa autorevolezza, di un diverso modo di approcciasi a noi che da scolari/e si diventava studenti/esse. Il cambiamento mi portò ad uscire dal mio guscio e a trovare ambiti in cui esprimermi, come la musica, l’educazione artistica, il francese che mi piaceva tanto con l’amabile professoressa Zen, pure il latino del secondo anno mi piaceva assai. Con la matematica ci litigavo un po’ finchè non arrivò una supplente che mi rassicurò, mi disse che la matematica andava capita per essere amata e non so se fu questa frase o lei che si vedeva che l’amava, ma feci pace e smise di essere una materia ostica per me.
L’italiano invece mi è sempre piaciuto, ma lo divenne ancor più quando una mattina dei primi mesi dell’anno il preside fece letteralmente irruzione in classe. Pareva esagitato, gesticolava e parlava con foga, non l’avevo mai visto così, aveva in mano un foglio a protocollo e sembrava letteralmente folgorato dal contenuto di un tema di un’alunna. Nuova iscritta ad anno scolastico già iniziato, proveniva da una scuola di un’altra regione italiana, non ricordo quale, so che parlava esclusivamente un italiano corretto e in breve tempo era già divenuta oggetto di scherno, emarginata perchè non parlava il dialetto veneto e perchè era una che se la tirava!
Mah! Chissà che smacco per questi energumeni quando il preside quel giorno passò di classe in classe, leggendo a tutti quel componimento scritto da una ragazzina in piena consapevolezza di sè e che scriveva dal profondo della propria anima. Era un bel tema davvero, ti trasmetteva bellezza e serenità nel clima di quegli anni già pesante di per sè per via dell’inquinamento che in paese stava diventando un problema, della diffusione della droga che si stava allargando a macchia d’olio, del primo periodo degli anni di piombo e della crisi economica che stava opprimendo molte famiglie.
Il preside ci invitò a prendere esempio, a sentirci capaci di esprimere i nostri sentimenti, ad aprire le nostre anime e ciò mi portò ad appassionarmi ai temi. Fu un lungo lavoro di introspezione che culminò alle scuole superiori in cui seppi trovare il modo di esprimere al meglio i miei pensieri, dando fondo alla mia fantasia e creatività. Mi piaceva trovare nuovi modi di sviluppare le tracce date dal prof, mi piaceva uscire dalla consuetudine, acquisii così il sapere di trasformare un semplice tema di attualità in un vero e proprio racconto che ogni volta le mie compagne mi chiedevano di condividere, per cui tenevo la brutta copia da leggere insieme.
Non ricordo chi me lo insegnò, ma imparai due cose fondamentali per fare un buon tema:
– tenere a mente 5 punti a cui rispondere: chi, dove, quando, come e perchè. Una volta risposto a questi 5 punti il tema era completo.
– per ottenere un’ortografia quasi impeccabile: rileggere a ritroso il tema partendo dall’ultima parola. Questo mi permetteva di visionare parola per parola e la mia attenzione non era distratta dal fluire della frase. In effetti ben poco sfuggiva con questo metodo, anche se era un po’ faticoso perchè ero solita riempire quattro pagine del foglio a protocollo con una scrittura piccola e fitta.
A proposito della mia scrittura, alle scuole superiori successe un fatto: la prof alla correzione di un mio tema, non trovando niente da segnalare, mi abbassò il voto per la scrittura troppo piccola. Il voto per me ha sempre avuto un’importanza relativa, ma non sono mai riuscita a tollerare le ingiustizie sia che riguardassero me, sia che riguardassero gli altri.
Ammettendo che sì, la mia scrittura era piccola, ma ho sempre avuto l’accortezza e l’educazione di renderla comprensibile per chi legge, perchè penso che infondo la scrittura illeggibile giochi contro perchè impedendo il fluire del discorso riduce inevitabilmente l’interpretazione del testo.
Fu decisamente una questione di principio la mia, dovevo fare qualcosa e lo feci alla mia maniera. La prof non era a conoscenza della mia capacità di saper essere prolissa… al bisogno… ero capace di riempire anche otto facciate e più di fogli a protocollo, bastava mi soffermassi ad arricchire di arzigogoli periodo per periodo.
Mi attrezzai di una nuova, fiammante penna Bic con punta extra-extrafine e al tema successivo mi “limitai” a riempire sei facciate scritte talmente in miniatura che mi sa che la sua lettura un’oretta gliel’ha portata via alla prof! ahahah
L’episodio comunque finì lì senza repliche e nei temi successivi mi impegnai a scrivere un po’ più grande.
Per concludere il discorso, gli anni delle superiori furono i migliori, un po’ per la maturità acquisita, un po’ perchè l’indirizzo rispecchiava meglio la mia personalità, un po’ perchè uscivo dal paese di origine e mi si ampliavano ulteriormente gli orizzonti, mi aiutarono molto a ben definire quella che volevo diventare.

Leda

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