Un bel articolo di Beppe Severgnini da cui prender spunto.
Mosca – Lisbona: lasciando Kiev
Martedì, 3 maggio 2011
Qualcuno penserà: “Guardare una mappa, salire su un treno, attraversare un continente? Infantile.” Che dire? Ha ragione. Ma gli adulti devono fare, ogni tanto, cose da ragazzi; e le fantasie ferroviarie, diciamolo, non sono tra le più insidiose. I treni sono un palcoscenico ambulante, in cui cambiano gli attori e gli sfondi. Come le cattedrali – è stato scritto – sono luoghi adibiti allo scambio e alla comunicazione. Ma sui treni si può parlare ad alta voce, e l’entrata è spesso molto distante dall’uscita.
In vita mia ho provato la Transiberiana (Mosca-Pechino), la Transaustraliana (Sydney-Perth), un viaggio da Helsinki a Istanbul e molti Milano-Roma (altrettanto esotici). L’anno scorso, come qualcuno ricorderà, ho viaggiato da Berlino a Palermo col collega Mark Spörrle di “Die Zeit”, che mi ha insegnato ad analizzare un treno come il luogo di un delitto, neanche fossi Agatha Christie. Appena sale in carrozza, Mark si precipita a studiare i bagni, e torna con una perizia minuziosa. Da Kiev a Cracovia – raccontano i miei informatori – ha studiato Irena, bionda studentessa ucraina. Rassicuriamo Frau Spörrle ad Amburgo: solo di interesse antropologico si tratta.
I treni sono un’idea classica, invulnerabile alle mode, come la bicicletta e l’orologio con le lancette. Sono culle e luoghi di pensiero, dove ci si può abbandonare a qualunque fantasia (tanto guida un altro). Sono macchine per incontri e saluti. Sono sale ambulanti di lettura. “Come si sta bene in mezzo agli uomini quando leggono. Perché non sono sempre così?“, si domandava Rainer Maria Rilke. E’ un’ottima domanda senza risposta. Possiamo dire che gli uomini – e le donne, in misura minore – sui treni si comportano bene. Poi, purtroppo, scendono: e fanno le cose cui hanno pensato in viaggio.
“Prestami il tuo gran fragore, la tua grande andatura così dolce / il tuo scivolare notturno attraverso l’Europa illuminata (…)
Ho sentito per la prima volta tutta la dolcezza del vivere / In uno scompartimento del Nord-Express, tra Wirballen e Pskow”.
Così scriveva Valery Larbaud… continua
È in una stazione ferroviaria che vive nascosto Hugo Cabret, un dodicenne nella Parigi degli anni trenta, rimasto orfano dopo la morte del padre avvenuta in un incendio nel museo dove lavorava, e dello zio, manutentore degli orologi della stazione, mansione che il ragazzo si trova costretto a continuare per non finire in orfanotrofio, rubando ciò che gli serve per sopravvivere.
LA MISURAZIONE DEL TEMPO
Per misurare il tempo i primi strumenti furono: la clessidra a sabbia o ad acqua e la meridiana.
La prima usata presso i Greci per calcolare il tempo riservato ai discorsi nell’agorà; la seconda portata a un alto grado di perfezione tecnica e di precisione matematica dagli Arabi, come gli astrolabi e le clessidre meccaniche, rese automatiche con un sistema di pesi e contrappesi.
I Bizantini escogitarono orologi ad accensione, in cui gli intervalli di tempo erano misurati in base alla durata di una combustione (orologi a olio, ceri, candele), poi orologi meccanici, fino all’adozione di molle come organo motore.
Un notevole progresso fu segnato dall’adozione di orologi meccanici a pesi e contrappesi, eventualmente collegati alle campane. Si ebbero così orologi monumentali che furono fin dal 14° sec. vanto di chiese, municipi e città.
Nel 17° sec. si ebbero due importanti innovazioni: l’applicazione del pendolo agli orologi effettuata da Galileo Galilei e da Christian Huygens, fisico, astronomo e matematico olandese, nel 1656 e quella, a opera dello stesso Huygens (1674), del bilanciere con molla a spirale agli orologi da tasca. La produzione industriale degli orologi nacque nel 18° sec. in Germania (Foresta Nera), per estendersi nel 19° sec. agli USA e al Giappone. A quelli meccanici si sono aggiunti, in tempi successivi, gli orologi elettrici, fra cui, particolarmente precisi, gli orologi piezoelettrici e gli atomici, che costituiscono campioni primari di tempo. (Enciclopedia Treccani)
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…era il rito dell’orologio della Grand Junction – si badi bene, quando ancora ogni città aveva la sua ora, dunque il suo tempo, mille tempi diversi, ogni città il suo, se qui erano le 14 e 25 là potevano essere le 15, ogni città con il suo orologio – e la Grand Junction era una linea ferroviaria, una delle prime linee ferroviarie mai costruite, correva come un’incrinatura lungo un vaso, sulla terra e sul mare, da Londra a Dublino correva e si portava un suo tempo dentro che scivolava nei tempi altrui, come una goccia d’olio su un vetro bagnato, e aveva una sua ora che doveva resistere a tutte le altre, per tutto il viaggio, e tornare intatta, una gemma intatta, affinché ogni istante potesse sapere se era un istante di ritardo o di anticipo, affinché ogni istante potesse conoscere se stesso, e dunque non smarrirsi, e dunque salvarsi – un treno che corre con nel cuore la sua ora, sorda a tutte le altre – per quel treno l’uomo coniò il rito elementare e sacro:
“Tutte le mattine, un messo dell’Ammiragliato consegnava all’impiegato di turno del treno postale Londra-Dublino un orologio che indicava l’ora esatta. A Holyhead d’orologio veniva consegnato agli impiegati del traghetto di Kingston che lo portava a Dublino. Al ritorno gli impiegati del traghetto di Kingston riportavano l’oroLogio all’impiegato di turno del treno postale. Quando il treno arrivava di nuovo a Londra l’orologio veniva riconsegnato al messo dell’Ammiraglio. Così ogni giorno, per centinaia di giorni.”
Erano i tempi in cui nella stazione di Buffalo c’erano tre orologi, ognuno con un’ora diversa, e sei ce n’erano nella stazione di Pittsburgh, uno per ogni linea ferroviaria che passava – era la Babele delle ore.
di Alessandro Baricco da Castelli di rabbia, 1991
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Fusi orari
Prima dell’adozione dei fusi orari (zone della Terra che hanno la stessa ora esatta) nelle varie zone della Terra si usava l’ora solare locale (media o vera), che produceva un orario leggermente differente da città a città. I fusi orari rettificarono parzialmente il problema, impostando gli orologi di una regione sull’ora solare media del meridiano centrale del fuso in cui la zona ricade. (L’ora legale)
Di suo padre gli è rimasto solo un automa a carica da riparare, trovato nel museo dimenticato chissà da quanto tempo e miracolosamente sfuggito all’incendio. È l’unico legame rimasto col passato.
Scoperto a rubare dei pezzi meccanici per riparare il robot meccanico da Georges Méliès, il gestore del chiosco dei giocattoli della stazione, il ragazzo riesce a sfuggire non senza un certo trambusto all’ispettore ferroviario che col suo cane è sempre a caccia di orfanelli, dileguandosi tra il fumo dei treni a vapore.
Méliès ripara i giocattoli e insieme a mama Jeanne si occupa della loro figlia adottiva Isabelle, una ragazzina affabile e ben educata, vivace ed assetata di avventure che vive attraverso gli eroi dei libri ricevuti in prestito da Monsieur Labisse. Non ha mai visto un film, papà Georges molto severo a riguardo, non le dà il permesso.
Isabelle promette di aiutare Hugo e sarà proprio lei a dargli la chiave per risolvere il mistero del buco della serratura a forma di cuore.
Nel piccolo e accogliente mondo della stazione, dove la vita di coloro che vi lavorano quotidianamente si mescola con quella di sconosciuti viaggiatori, tutto ha il sapore e il ritmo di un tempo “misurato”, dove tutto assume un significato e ogni momento viene vissuto tra grandi e piccoli ingranaggi. Realtà e Immaginazione. Abilità manuali di precisione e di prestidigitazione.
Ogni cosa ha uno scopo, perfino le macchine: gli orologi ti dicono l’ora, e i treni ti portano nei posti, fanno quello che devono fare, come il signor Labisse (che manda i libri nella casa giusta). Forse per questo i meccanismi rotti mi rendono triste, non possono più fare quello che dovrebbero. Forse è lo stesso con le persone: se perdi il tuo scopo, è come se fossi rotto.
Dietro il suo atteggiamento burbero Georges Méliès cela dolore e delusione, la Grande guerra ha lasciato molte ferite e, come dice mama Jeanne, rinvangare il passato può essere molto doloroso, ma a volte necessario se cercare di dimenticare porta solo infelicità.
Il giovane Hugo per superare la solitudine dopo la morte del padre, ha imparato una cosa molto importante:
…venivo sempre quassù, immaginavo che il mondo fosse un grande meccanismo. Le macchine non hanno mai dei pezzi in più, hanno sempre l’esatto numero che serve, così ho pensato che se tutto il mondo era un’enorme macchina io non potevo essere in più, dovevo essere qui per qualche motivo.
Alla biblioteca dell’Accademia Cinematografica, Hugo e Isabelle scoprono chi è veramente Georges Méliès.
Del grande regista ne parla Renè Tabard, suo grande estimatore, attraverso il suo libro: “L’invenzione dei sogni: La storia dei primi film”.
IL POTERE DI CATTURARE I SOGNI
Nel 1895 uno dei primi film mai proiettati s’intitolava *“L’arrivo di un treno alla stazione” e non era altro che un treno che entrava nella stazione. Quando il treno arrivò a tutta velocità verso lo schermo, gli spettatori urlarono perchè credevano di rischiare di venire travolti. Nessuno aveva mai visto niente del genere prima.
Quando i primi cineasti scoprirono che potevano utilizzare il nuovo mezzo per raccontare delle storie, quell’attrazione di poca importanza presto diventò qualcosa di più.
Il cineasta Georges Méliès è stato uno dei primi a capire che i film avevano il potere di catturare i sogni.
Se ti sei mai chiesto da dove arrivano i tuoi sogni, guardati intorno, vengono creati qui.
Egli realizzò più di 500 film, straordinariamente popolare ai suoi tempi, fu creduto morto come molti altri durante la Grande Guerra.
*L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat è uno dei più famosi cortometraggi dei fratelli Auguste e Louis Lumière.
Méliès, grande attore di teatro e illusionista francese, pioniere della prima cinematografia, invenzione dei Fratelli Lumière, s’innamorò di questo nuovo tipo di magia, su cui investì tutti i suoi averi. Una grande avventura che lo coinvolse completamente e che sembrava non poter finire. Invece la guerra cambiò tutto e tutto andò in rovina.
E Méliès abbandonò il suo sogno.
Mio padre mi portava al cinema di continuo.
Mi ha raccontato del primo film che ha visto:
è entrato in una sala buia e su uno schermo bianco
ha visto un razzo volare nell’occhio dell’uomo nella Luna.
Gli si è conficcato dentro. Ha detto che è stato
come vedere i suoi sogni in pieno giorno.
Hugo Cabret
L’immagine è tratta da “Viaggio nella Luna” (Le Voyage dans la Lune) del 1902. È il film più noto di Georges Méliès che insieme ad altre sue creazioni richiama direttamente o indirettamente l’opera di Jules Verne, e sono considerati i primi film di fantascienza. La navicella spaziale che si schianta sull’occhio della Luna (che ha un volto umano), è entrata nell’immaginario collettivo ed è una delle sequenze che hanno fatto la storia del cinema.
Méliès ebbe il pregio di introdurre e sperimentare numerose novità narrative, creando un’atmosfera di “gioco” e farsa allegra, e novità tecniche, in particolare del montaggio. Scoprì accidentalmente il trucco della sostituzione nel 1896, un trucco per operare apparizioni, sparizioni, trasformazioni, salti da un luogo all’altro, da un tempo all’altro. Fu uno dei primi registi a usare l’esposizione multipla, la dissolvenza e il colore (dipinto a mano direttamente sulla pellicola). Il critico e storico del cinema Georges Sadoul lo definì “Il Giotto della settima arte”.
Hugo è un film di Martin Scorsese del 2011 tratto dal romanzo “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” del 2007 di Brian Selznick.
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Oggi, ahimè le stazioni sono spesso fredde e impersonali. Mi è sempre piaciuto il treno, è un bel viaggiare, soprattutto quelli che percorrono tragitti di montagna e lungo le coste, dal finestrino vedi dei paesaggi unici, non visibili dalle strade. Inoltre puoi incontrare persone di ogni genere e avere esperienze uniche.
Come quella volta…
avevo poco più di vent’anni e come ogni fine settimana sul treno c’era molta gente, per cui finii per restare in piedi sulla piattaforma. Mi aspettavano più di due ore di viaggio e per passare il tempo avevo preso l’ultimo numero della Settimana Enigmistica, puntai subito su “Ricerca di parole crociate”, il mio cruciverba preferito. Ero totalmente assorta nel cercare di completarlo… mi mancavano poche definizioni ma riguardavano argomenti che proprio non conoscevo, e nemmeno l’intuito mi era d’aiuto, quando a un certo punto si avvicina un bel tipo, tutto “in tiro”, abito elegante, valigetta ventiquattrore e mi dice: «Ho visto che stiamo facendo lo stesso schema di parole crociate, potremmo unire le forze per riuscire a completarlo…»
La cosa buffa è che lui aveva risolto quelle che mancavano a me e io avevo risolto quelle che mancavano a lui. 😊
A breve, riuscimmo a terminarlo e ci ridemmo un po’ sù, perchè c’è sempre qualcosa che a noi può sembrare banale, mentre ad altri può risultare difficile e viceversa. Infondo non si può sapere tutto di tutto…
Leda
“Lo scopo è la vita”
Diceva un saggio, e se sottolineo oggi questo pensiero è perchè non si consente più ai fiori di sbocciare secondo il loro ritmo; si vuole subito un risultato, e si dimentica volentieri che la bellezza dello scopo dipenderà essenzialmente dalle qualità sviluppate lungo il percorso per raggiungerlo.
Duemila anni fa [..] non sapevamo nulla della corsa ai diplomi, al sapere, alle conoscenze che portano le persone ad un livello diverso tra loro, dove il cuore, tuttavia, non ha più molto da dire.
Nelle *comunità essene imparavamo che la mente e l’intelletto erano al servizio del cuore; gli insegnamenti ci venivano dispensati in base alle nostre capacità reali, e non secondo le necessità di una società. Sapevamo che ognuno era diverso dall’altro, e non per questo aveva minor valore; potevamo arricchirci reciprocamente con le nostre conoscenze, e gli scambi erano una cosa normale, anche sul piano pratico e materiale.
Persino la nozione di tempo era diversa, e d’altronde, non c’era nulla per cui mettersi a correre! Sapevamo che per compiere bene un lavoro ci voleva tempo, e quel tempo, lungi dall’essere perso, faceva parte integrante del nostro cammino interiore, e quindi della nostra crescita.
Tratto dal libro di Anne Givaudan – Antiche Terapie Essene e Lettura dell’Aura
*Gli Esseni erano una comunità già conosciuta da secoli attraverso gli scritti degli autori antichi, greci e latini. Era un gruppo ebraico di età ellenistico-romana, di cui si ebbero notizie con la grande scoperta, fatta nel 1947, dei manoscritti del Mar Morto all’interno di grotte situate nei pressi di Qumran dove alcuni di loro risiedevano, mentre altri erano dispersi in tutto il paese. Essi vivevano in modo appartato e solitario, organizzati, fuori dal contesto sociale, in comunità isolate di tipo monastico e cenobitico.
Vissuti al tempo di Gesù, il sito di Qumran andò incontro a una fine violenta nel 68 d.C. a opera dei romani a causa del loro coinvolgimento nelle sommosse negli anni della guerra, che si concluse con il crollo di Gerusalemme.
Tracce del loro insegnamento sono apparse in tutte le religioni. I principi fondamentali erano insegnati anticamente in Persia, Egitto, India, Tibet, Palestina, Grecia e molti altri paesi.
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