Il disastro del Vajont

«Avevo spento da poco la luce quando avvertii la terra tremare; mi portai dietro le imposte e sentii un forte vento e vidi le luci e le strade emanare un intenso bagliore e poi spegnersi. Mi precipitai verso il letto e afferrai i due bambini che dormivano…»

Una madre

Ascoltare il racconto di Marco Paolini sul disastro della diga del Vajont che avvenne il 9 ottobre del 1963, mi ha fatto ricordare i racconti di mia madre. Rende tangibile l’amarezza e l’incredulità per quello che era successo, e  la disapprovazione per l’incompetenza e il tentativo di archiviare in fretta la faccenda. È stato impressionante rivivere insieme quel momento…

Leggere un resoconto su un giornale, sentirne discutere alla TV, non rende bene l’idea di ciò che è accaduto come lo può fare la drammatizzazione dei fatti attraverso le immagini e il racconto che dà corpo alle emozioni, le stesse che provavo io ogni volta che ascoltavo mia madre raccontare.

Il torrente Vajont nasce in Friuli Venezia Giulia. Nel corso dei secoli scava una stretta e lunga valle che porta il suo nome, giungendo fino in Veneto per confluire nel fiume Piave, lo stesso che «…mormorò, non passa lo straniero» (da La leggenda del Piave, canzone patriottica del 1918) nel corso del Primo conflitto mondiale.

Tra il 1957 e il 1960 lungo il suo corso, nel territorio del comune di Erto e Casso in provincia di Pordenone (Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia), fu costruita una diga; essa faceva parte di una rete di bacini che coinvolgeva vari torrenti e fiumi, un progetto concepito per sfruttare al massimo tutte le acque ed i salti disponibili di fiumi e torrenti presenti nel territorio.
Lo scopo era quello di produrre energia idroelettrica in alternativa al carbone, una tecnologia pulita e più economica utilizzata con consuetudine in Italia verso la fine del 1800, in corrispondenza della Seconda rivoluzione industriale.
Essendo richiesti maggiori quantitativi di energia, infatti, fu autorizzata la costruzione di centrali idroelettriche, ad esempio nei comuni di Bolzano e Merano in Alto Adige nel 1891 e in Veneto per la Marzotto di Valdagno; centrali anche di piccole dimensioni come per le birrerie quali la Pedavena di Belluno e la Zimmermann di Aosta ai primi del 900.

Fin dal 1898, per la gran parte della produzione di energia elettrica, in Italia si sfruttavano le caratteristiche del territorio, in particolare le risorse idrogeologiche ad opera di oltre 1.200 aziende private locali o di ambito regionale o legate a soggetti industriali. Lo Stato sovvenzionava la realizzazione di centrali elettriche e delle opere territoriali connesse, al fine di incrementare ulteriormente la produzione di energia elettrica.
Basti pensare che nel 1931 Terni (Umbria) vantava il più grande bacino idroelettrico d’Europa, che divenne proprietà della neonata ENEL nel 1962.

La diga sul Vajont fu progettata dall’ingegner Carlo Semenza (1893-1961) responsabile delle costruzioni idrauliche delle dighe per la società SADE.
Egli collaborò fino al 1961 al programma di sfruttamento idroelettrico dell’area veneta attuato con la creazione di bacini di ritenuta idrica tramite grandi dighe. Di queste si ricordano quelle di Fedaia, Corlo, La Stua, Senaiga, Val Gallina, Schenèr, Valle di Cadore, Sauris, Kurobe e la diga del Vajont.

LA SADE

La SADE (Società Adriatica Di Elettricità), era una società elettrica privata fondata nel 1905 a Venezia da Giuseppe Volpi, conte di Misurata, “per la costruzione e l’esercizio di impianti per la generazione, trasmissione e la distribuzione di energia elettrica in Italia e all’estero“.
La società rappresentò la base tecnica e indispensabile per la trasformazione sociale del Veneto da agricolo a industriale.

Nel tempo la SADE acquisì varie società del settore presenti in altre regioni, fra cui la Società Anonima Ferrarese Trazione Forza e Luce (TFL), impegnata anche nella gestione della rete tranviaria di Ferrara; inoltre nella zona dolomitica costruì una serie di impianti.
A Venezia, la prima Centrale Termoelettrica situata a San Giobbe nel 1922 venne trasferita nelle desolate paludi che ora sono le fondamenta della città di Marghera, in vista degli sviluppi del Porto Industriale. Un impianto convenzionale, alimentato a carbone/lignite e olio combustibile, il cui utilizzo era limitato o a periodi di siccità, dato che la provenienza principale dell’energia elettrica al tempo era di tipo idroelettrico, o ad eventuali picchi di richiesta nella Regione, a garanzia per l’industria nascente. La Centrale rimarrà per molti anni una realtà all’avanguardia sia in Italia che all’estero.

La SADE fu responsabile della progettazione e realizzazione della diga del Vajont: all’epoca della sua costruzione, negli anni Sessanta, era la diga a doppio arco più alta del mondo.
In seguito alle vicende giudiziarie conseguenti la tragedia del Vajont la SADE venne travolta giungendo poi alla fusione con la Montecatini, storica azienda chimica italiana fondata nel 1888 a Firenze e uno dei più importanti gruppi industriali italiani dell’epoca.

 

Iniziati i lavori di costruzione della diga del Vajont nel 1957, la SADE li terminò nel 1959 procedendo quindi ai collaudi e al riempimento del serbatoio a partire dal 1960.
Il primo invaso sperimentale venne autorizzato fino a raggiungere quota 595 dal Servizio dighe del Ministero dei lavori pubblici, tramite comunicazione del Genio Civile di Belluno. Procedendo a quote successive vi fu la rilevazione di fenomeni sismici e movimenti franosi nella zona, che da una parte vennero interpretati come piccoli assestamenti ma dall’altra preoccupavano non poco la popolazione.
Nel 1962 la SADE in seguito ai provvedimenti adottati per controllare e regolare i movimenti franosi e la tendenza all’apparente assestamento, chiese di portare l’invaso da quota 675 fino a quota 700 e ottenne l’autorizzazione dal Servizio dighe del ministero.

Nel frattempo in ambito della distribuzione di energia lo Stato era intervenuto nel 1961 con l’unificazione delle tariffe su base nazionale per uguali classi di consumo, imponendo alle varie aziende elettriche di fornire l’allacciamento a chiunque ne facesse richiesta.
Nel 1962 il Governo Fanfani IV, ricevuta la fiducia dal Parlamento italiano, assunse l’impegno di proporre un provvedimento di unificazione del sistema elettrico nazionale. Si vuol fare dell’energia elettrica uno strumento di sviluppo del paese e definire una politica nazionale, anche sulla base delle esperienze di altri paesi quali Francia e Gran Bretagna. Appositamente viene costituito un nuovo ente pubblico: l’ENEL.

Nel marzo 1963 per ENEL iniziò una fase di passaggio delle consegne, quindi l’assunzione del controllo delle imprese elettriche e la presa in carico degli impianti, compresa la diga del Vajont.
Per decreto del Presidente Repubblica 14 marzo 1963, n. 221 venne stabilito quindi il trasferimento della SADE all’ENEL. Nello stesso mese dall’ENEL venne fatta richiesta di salire da quota 700 fino a quota 715 e ottenne l’autorizzazione dal Servizio dighe, comunicata il 4 maggio 1963 dal Genio Civile di Belluno.
Al graduale aumento della quota ritornarono a manifestarsi fenomeni sismici e franamenti che andarono via via peggiorando tra agosto e settembre, a nulla valsero i provvedimenti che adottarono i tecnici dell’ impresa elettrica.

“La notte fra il 9 ed il 10 ottobre 1963 una immane tragedia invase di angoscia e sgomento tutta la Nazione”.

(L’immane disastro Relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont 15 luglio 1965)

Nelle acque della diga del Vajont cadde una frana di 260 milioni di metri cubi.
L’impatto della frana nel lago provocò delle ondate che scavalcando la diga lambirono i paesi di Erto e Casso, distruggendo anche i paesi a valle: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova e Faè. Un disastro che ha causato circa duemila vittime.

“Dall’esposizione dei fatti e dei comportamenti emergono pesanti responsabilità, in ordine alla catastrofe del Vajont, della SADE, dell’ENEL-SADE e dello Stato. La tragedia poteva e doveva essere evitata”.

dalla Relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont 15 luglio 1965

Al processo l’ENEL venne imputata come società responsabile del disastro, aggravata dalla prevedibilità dell’evento. Nel 1964, anche la Montecatini venne coinvolta nel processo, avendo acquisito la SADE, costruttore dell’impianto. Le due società sono state condannate a risarcire i danni alle comunità coinvolte nella catastrofe.

PIANI ENERGETICI NAZIONALI

Negli anni Settanta del Novecento, caratterizzati da una forte crisi energetica in seguito alla crisi petrolifera, e da drastiche misure di austerity, si pose in atto il primo piano energetico nazionale (PEN) che ebbe come obiettivo la costruzione di nuove centrali elettriche e, puntando a diminuire progressivamente la dipendenza dagli idrocarburi, la ricerca di nuove fonti energetiche: idroelettriche, geotermiche, incremento dell’uso del carbone, il ciclo dei rifiuti e in particolare con l’utilizzo dell’energia nucleare.
In questo senso tra il 1970–1980 sono stati realizzati diversi impianti, anche sperimentali con l’uso di energie alternative.

Nel 1987 in seguito agli eventi di Černobyl, ebbe luogo il referendum che sancì la fine dell’utilizzo dell’energia nucleare in Italia, la chiusura e il blocco della costruzione di centrali nucleari e la definizione di un nuovo piano energetico nazionale rivolto alle energie alternative e alla realizzazione di impianti diversificati.

Nel 1988 il nuovo piano energetico nazionale (PEN) ha stabilito come obiettivi fondamentali l’incremento dell’efficienza energetica, la protezione dell’ambiente, lo sfruttamento delle risorse nazionali, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dall’estero e in generale la competitività del sistema produttivo.

Dal 1990 si è assistito ad una progressiva liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica, e dal 2000 sono state attivate  alcune politiche di riduzione dell’impatto ambientale nella produzione di energia e da una progressiva internazionalizzazione di ENEL attraverso numerose acquisizioni e fusioni.

ENEL, quotata alla Borsa di Milano dal 1999 e con sede principale a Roma, è parte di un gruppo di aziende che si occupa della produzione e della distribuzione di energia elettrica e gas in circa 30 paesi in Europa, Nord America, Sud America, Asia ed Africa.

 


Foto di merlinorn0 da Pixabay

La zona del Vajont è prevalentemente montana ricoperta in gran parte da boschi, radure e pascoli che rappresentarono fino alla fine del XIX secolo la principale fonte di sostentamento della comunità, unita al commercio del legname.
Il disastro del 1963 si è portato via le case, le persone, ad alcuni anche le radici e sono emigrati, altri sono rimasti. La diga è ancora là, intatta, in disuso, ed è diventata parte del paesaggio.

Tutti a suo tempo pensarono al cedimento della diga, ma in realtà ciò che risultò fatale fu la superficialità con cui furono condotti gli studi preliminari per la realizzazione dell’opera, che non approfondirono e trascurarono alcuni elementi importanti, in parte emersi durante i test geologici, che evidenziarono la friabilità del versante del monte Toc.

Più di due anni prima del disastro la stessa giornalista Tina Merlin con un articolo sull’Unità, giornale comunista dell’opposizione, denunciava la  presenza e la pericolosità di una frana sopra al bacino del Vajont. Ma rimase inascoltata.
Bellunese di nascita e sensibile ai problemi della montagna veneta, Tina Merlin era attenta al piano di sfruttamento del Piave e dei suoi affluenti. Con una serie di articoli diede voce alle proteste inascoltate della gente, agli espropri forzati, alla preoccupazione per la sicurezza dei paesi. Venne anche denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”, accusa da cui venne assolta con formula piena.

Per decenni il Vajont rimase un ricordo vago nella memoria nazionale. Era un tema troppo scomodo poichè metteva sotto accusa la classe politica, economica e scientifica italiana del tempo.

Negli ultimi anni vi è stata una presa di coscienza e un risveglio di interesse nei confronti della diga e la tragedia del Vajont, attirando visitatori anche internazionali.
Dal 2007 l’ENEL, oggi proprietaria delle strutture e dei terreni, ha ripristinato tutto il coronamento della diga, l’unica parte che rimase danneggiata, rendendo accessibile il percorso ai visitatori da cui è possibile osservare l’impressionante scenario della frana del Monte Toc e della valle sottostante di Longarone.
La gestione è stata affidata al Parco naturale delle Dolomiti Friulane, un’area protetta del Friuli-Venezia Giulia istituita definitivamente nel 1996 come parco naturale regionale.

Nel 2013 la Regione Veneto si è impegnata in un progetto di messa in sicurezza e di recupero delle gallerie interne alla montagna, dette “strada del Colomber” (la vecchia statale 251), dove dal 2006 ogni anno l’ultima domenica di settembre si tiene una manifestazione podistica non competitiva denominata “I Percorsi della Memoria”.

Nella sede del Centro Culturale di Longarone nel 2009 è stato inaugurato un museo con una rassegna di fotografie e documentazioni storiche che descrivono la vicenda della diga del Vajont che colpì l’abitato di Longarone e i paesi circostanti nel 1963 causando circa 2000 vittime.

 

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