Casa dolce casa


La casa – Sergio Endrigo (di Vinicius De Moraes, 1969)

La casa dei miei genitori ha una sua storia. Fu costruita su un pezzo di un consistente complesso rurale, smembrato e svenduto dagli eredi negli anni 50 del secolo scorso. I miei genitori acquistarono la parte finale, quella più economica che era la stalla, e fu il punto di partenza per costruire la loro prima e unica casa.
Mia madre e mio padre sono nati e vissuti in una corte nella stessa frazione ed erano vicini di casa. Dai racconti famigliari che ho ascoltato tante volte, mio padre era uno spiantato, cresciuto in una famiglia senza regole, in cui ognuno faceva un po’ come gli pareva e si guadagnava qualcosa facendo qualche lavoretto qua e là. Mi ricordo una foto della sua giovinezza a cui mio padre era particolarmente legato, un’immagine di un bosco in bianco e nero dove alcuni giovani stavano arrampicati sui tronchi degli alberi sparsi qua e là. Diceva che era un gruppo musicale locale ma non ho mai capito se lì c’era anche lui o no.
Mia madre ha amato molto mio padre, ricambiata, ma dai suoi racconti ho capito che fu ostacolata dai miei nonni per la situazione precaria di mio padre. A differenza di quella paterna, la famiglia di mia madre, pur essendo di origini modeste, era ligia alle regole, essendo molto numerosa, dieci figli, ognuno dei quali aveva precisi compiti.
Non conosco l’evolversi dei fatti o non me lo ricordo, sta di fatto che si sposarono e in fabbrica al posto di mia madre, operaia metalmeccanica, subentrò mio padre ed avvenne una svolta radicale nella sua vita, si rivelò un uomo capace di fare qualsiasi lavoro, di riparare qualsiasi oggetto.

Con l’aiuto di uno zio muratore, pian piano cominciò  a costruire la loro casa su un solo piano: cucina, camera e bagno. Nei primi anni 60 allargando la famiglia, aumentarono gli spazi con un secondo piano e fine anni 70 con un terzo. La parte originaria della casa, la stalla, divenne e rimase la cantina con il fondo in terra battuta e l’inferriata alla piccola finestra. Un posto magico nei miei ricordi. Lì in tempo di vendemmia ho pestato l’uva con i piedi per la prima volta, e quanto mi sono divertita!, ho aiutato ad appendere al soffitto salami, sopresse e salsicce, ho giocato al gioco dei mestieri, ho fumato la mia prima sigaretta fregata a papà, vi ho tenuto rinchiuso dentro per un’ora intera uno dei miei fratelli che mi aveva fatto inc***are parecchio e si era rifugiato lì, picchettai la porta per un’ora intera appoggiandomi con la schiena e facendo leva con i piedi sul muro, così che non buttasse giù la porta. Mia madre mi invocava di lasciar perdere, ma io cocciuta volevo dargli una lezione, e così fu e non subii alcuna rivalsa. A casa nostra si litigava parecchio, tra rincorse e spintoni che spesso mandavano in frantumi i vetri delle porte, con disperazione di mia madre, ma non si è mai arrivati alle mani e poi tornava sempre la pace e tutto sommato eravamo e siamo tuttora molto legati. Ho sempre fatto grandi discussioni, anche disquisizioni filosofiche se si possono definire così, con i miei cinque fratelli e ho imparato molto da loro, sono sempre stati dei modelli da seguire per me.

Alla costruzione del terzo piano contribuii anch’io; io e mio padre smantellammo i vecchi muri troppo larghi costruiti con grosse pietre. Mi ricordo quell’estate, era il 1974, anno in cui nacque il mio primo nipotino, ne avemmo notizia proprio mentre noi due preparavamo la malta nella betoniera, che poi caricavo nei secchi e tramite una rotaia a motore, ingegnosamente costruita da mio padre, facevamo salire al terzo piano. Brindammo alla nuova vita lì nella corte con una bottiglia di Durello del 1972, un’annata particolare che rese il vino insolitamente amabile e frizzante.

Rimanevo affascinata a guardare i muri prendere pian piano forma tra mattoni e bolle, fili a piombo, l’abilità con cui mio padre e mio zio con la cazzuola stendevano un generoso strato di malta, vi appoggiavano il mattone, davano alcuni colpetti e con un gesto elegante e accurato toglievano il debordo e il tutto in scioltezza, mattone su mattone.

Per i miei genitori avere una casa è sempre stato fondamentale perchè dà un futuro di sicurezza, lì rimangono le tue radici, i tuoi ricordi.
Mio padre è sempre stato molto orgoglioso di essere riuscito a dare alla sua famiglia una casa, modesta ma accogliente, in cui ognuno ha potuto avere i propri spazi.
E rare volte l’ho visto così arrabbiato come quando, nel 1972 fu istituita la prima tassa sulla casa. Spesso l’ho sentito protestare perchè infondo la casa se l’era costruita da sè, con molti sacrifici sia in termini di fatica, sia in termini di denaro, i miei han sempre evitato di fare debiti, al massimo accettavano qualche prestito dai famigliari assolto nel più  breve tempo possibile.
Questa tassa proprio non gli è mai andata giù tanto la trovava ingiusta. Avrebbe trovato più equo pagare il suolo pubblico che si occupa, che è di tutti, ma i muri sono altra cosa…
Purtroppo ha fatto in tempo a fare i conti anche con l’ICI, ma ormai era rassegnato e la sua reazione era quella di scrollare il capo a testa china. Mio padre era un uomo buono, ha sempre creduto molto nella giustizia e nell’onestà, credeva nella lealtà e ha partecipato alla lotta operaia negli anni 70, si è fatto tutto da solo con grosse rinunce e sacrifici e spesso si è sentito deluso, tradito nei suoi stessi ideali.

Pur essendo una famiglia numerosa col solo stipendio da operaio di mio padre, i miei genitori non hanno mai pensato a una casa in affitto o a una casa popolare, non era nella loro mentalità. Non avrebbero mai avuto la libertà e gli spazi che permette una casa propria, e poi, abituati com’erano fin dall’infanzia a vivere in collina immersi nel verde, credo che mai si sarebbero adattati a vivere in città. Così mia madre gestiva con oculatezza l’economia domestica, facendoci bastare quel che ci potevamo permettere, a quel tempo del resto non c’erano molte spese fisse come oggi ed era possibile effettivamente economizzare.

Le case popolari in Italia

Nel 1903 con la Legge n. 251 del 31.05.1903 per iniziativa dell’On. Luigi Luzzatti furono creati gli Istituto Case Popolari (ICP). Tale provvedimento si inseriva nel quadro di una politica sociale che, al prin­cipio del secolo, si poneva come obiettivo quello di trasformare e miglio­rare le condizioni di vita delle popolazioni, in specie dei ceti meno abbienti, secondo un principio di solidarietà e di giustizia sociale.

L’Istituto Autonomo case Popolari (IACP), ora disciolto, era un tipo di ente che non consisteva in un unico organismo, ma si componeva di fatto di più compagini che si formavano localmente a livello comunale o provinciale con lo scopo di promuovere, realizzare e gestire edilizia pubblica finalizzata all’assegnazione di abitazioni ai meno abbienti, segnatamente in locazione a canoni calmierati. Alcuni divennero poi enti morali.
Fra le due guerre il fascismo intervenne sull’urbanistica per far fronte alla crisi degli alloggi e previde facilitazioni per gli enti che si occupavano di realizzarne, tanto per il territorio metropolitano quanto quello coloniale, pertanto vi era fabbricazione di alloggi popolari anche nell’Africa Orientale Italiana.
A partire dal dopoguerra, il sistema di finanziamento dell’edilizia popolare venne modificato, non si basò più unicamente sul ricorso al credito esterno, poiché lo Stato, l’INA-Casa e GESCAL concorsero per intero al finanziamento delle costruzioni.

INA-Casa: fu un piano finalizzato alla realizzazione di case economiche per i lavoratori, previsto per un periodo dal 1949 al 1963 al fine di incrementare l’occupazione operaia.
Si era a pochi anni dalla conclusione della Seconda guerra mondiale e a poco più di un mese dall’insediamento del V governo De Gasperi, il progetto di legge presentato dal ministro del Lavoro e della Previdenza sociale Amintore Fanfani, da cui prese avvio il piano INA-Casa, si proponeva in primo luogo di affrontare il problema della disoccupazione, attraverso lo sviluppo del settore edilizio, ritenuto ambito capace di promuovere la rinascita economica dell’Italia del dopoguerra.

Il piano venne finanziato attraverso un sistema misto che vide la partecipazione dello Stato, dei datori di lavoro e dei lavoratori dipendenti. Questi ultimi, attraverso una trattenuta sul salario mensile – l’equivalente di una sigaretta al giorno, come recitava la propaganda dell’epoca. Si venne così a realizzare su scala nazionale una partecipazione solidaristica di tutte le componenti sociali verso i bisogni dei più poveri.

I quartieri costruiti allora rappresentano oggi non soltanto una significativa testimonianza del Novecento italiano, ma costituiscono parti rilevanti delle nostre città, dove mantengono ancora una loro precisa identità. Un consistente patrimonio moderno che chiede interventi di valorizzazione capaci di coniugare tutela e riqualificazione.

Nel 1963 venne chiusa definitivamente l’esperienza dell’INA-Casa, altri enti altre norme e altri strumenti prenderanno il suo posto nella programmazione, nel finanziamento e nella costruzione di edilizia sociale.

GESCAL (GEStione CAse per i Lavoratori) era un fondo destinato alla costruzione ed alla assegnazione di case ai lavoratori istituito da un programma decennale di costruzione di alloggi per lavoratori, nato dalla trasformazione del cessato piano INA-Casa.
Il fondo era costituito da contributi provenienti dai lavoratori stessi, dalle imprese ed in parte da finanziamenti governativi e si proponeva quattro tipi di progetti:

finanziamento per lavoratori dipendenti
finanziamento di aziende pubbliche o private che costruiscono abitazioni per i propri dipendenti
finanziamento delle cooperative
mutui a singoli privati

Nel 1973, l’ente Gescal viene soppresso, ma il contributo continuerà ad essere versato praticamente fino al 1992. L’IACP eredita quindi il patrimonio abitativo di una serie di enti disciolti tra i quali la Gescal. Nel 1978 con il trasferimento dei poteri alle Regioni da parte dello Stato i fondi ex Gescal vengono ripartiti tra le Regioni, che localizzano gli interventi nei vari Comuni sulla base di dati statistici.

L’art. 128 del DPR 390/90 stabilì che 200 miliardi di fondi ex Gescal fossero riservati al finanziamento delle strutture di recupero per combattere l’emergenza droga. Una serie di norme infatti consentiva l’utilizzo di questi fondi per scopi diversi da quelli istituzionali, aspetto peraltro contestato dalla Corte Costituzionale, così come il criterio di assegnazione degli alloggi costruiti con i fondi che  necessariamente ed esclusivamente dovevano essere destinati a chi aveva versato i contributi.

Una volta aboliti i Fondi Gescal che garantivamo una certa programmazione, con Il passaggio delle competenze alle Regioni le risorse per l’edilizia pubblica sono venute a mancare e ciò ha comportato maggiori disparità tra le Regioni.


Il diritto all’abitazione è riconosciuto in una serie di trattati internazionali sui diritti umani: l’articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani e l’articolo 11 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR) riconoscono il diritto alla casa come parte del diritto ad un adeguato standard di vita.

Nella Costituzione italiana il diritto all’abitazione è richiamato all’art. 47 e in ripetute sentenze della Corte Costituzionale si sottolinea sia doveroso da parte della collettività intera, impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione, considerato un bene primario che necessita di essere tutelato dalla Legge.


Da “fuori” della questione, oggigiorno viene naturale (e ingenuamente) pensare che un appartamento di una casa popolare costruito in comune, con denaro pubblico dovrebbe essere assegnato a una famiglia in stato di bisogno, temporaneamente, finchè non raggiunge una certa autonomia economica che le permetta di prendere in affitto una casa, come fanno tutti. In questo modo l’appartamento ritorna a essere disponibile per un’altra famiglia bisognosa di sostegno e aiuto da parte della comunità.

Oppure, dopo un determinato tempo, che sia data l’opportunità a chi vi abita di poterla acquistare, in modo che si possano costruire altre case popolari, più innovative, così da stare al passo con i tempi.

Il carattere assistenziale che stava alla base di molti interventi pubblici del passato, che aveva certamente un aspetto buono, visto la diffusa povertà che non garantiva un minimo di vita dignitosa, ha creato però anche un certo fenomeno per cui molti si sono “adagiati”… finchè ce n’è, finchè nessuno parla…! Ritorniamo al concetto di ciò che è giusto e di ciò che ci conviene.
E così succede che ci sono persone che da moltissimi anni pagano una miseria di affitto al Comune, pretendendo pure ogni genere di manutenzione!! E quando, per porre fine a questo stato di cose, viene proposto loro di acquistare per una cifra ridicola l’appartamento… alcuni si scandalizzano pure! Non si rendono conto di essere dei privilegiati in confronto a chi l’appartamento se l’è sudato davvero.  È un atto di prepotenza per cui ci si ritiene sempre in diritto, trascurando il dovere etico e morale (visto che etico e morale era lo spirito di base delle case popolari) di essere solidale con chi ora si trova veramente in difficoltà.

D’altro canto succede anche che c’è chi vorrebbe regolare il rapporto per avere la certezza che l’appartamento rimanga in eredità alla famiglia, ma ciò per una serie intricata di cose non gli viene concesso.

Leda

 

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