Regalami un sorriso – Drupi (1984)
È curioso come alcune canzoni ti rimangono impresse nella mente, le dimentichi per anni e anni e poi un giorno all’improvviso ti ritrovi a cantarla e ritorna la leggerezza di quegli anni in cui il futuro è ancora tutto da scrivere e il bagaglio alle spalle è ancora leggero. Tutto sommato nella sostanza non mi sento molto cambiata da allora, se non per l’esperienza che ho accumulato e che mi fa vivere più intensamente il presente, a riderci anche sù se tutto non è andato come speravo, infondo la vita è un viaggio e quello che porto con me non sono inutili oggetti, cianfrusaglie, persone vuote, parole inutili, ma solo ricordi preziosi di cui nessuno mi può privare.
Mi è piaciuta una frase in cui mi riconosco, di Sandro Veronesi tratta da Caos calmo.
…oggi mi sono costruito un ricordo fenomenale, qualcosa di talmente grande che non potrò parlarne con nessuno. Ricorderò per anni questo momento: i mucchi di neve lungo il marciapiede, l’odore di bagnato nell’aria, le nuvole di fiato. Poi un giorno, se sarò diventato un uomo buono, lo dimenticherò.
Navigando in Rete ho trovato un bel racconto davvero, che mi ricorda altri momenti del passato. Anche se luoghi e persone sono diversi, le sensazioni sono le stesse e lo vorrei condividere.
Leda
ESTATE DEL 1973
La strada per andare in paese era ancora tutta sterrata, e polverosa; non aveva ancora nemmeno un nome, quello di “via delle Ginestre” che ancora glielo dettero anni dopo, quando l’asfaltarono e ci misero dei lampioni. Già, perché era anche completamente buia, di notte; ma, tanto, chi se ne importava. Io, di notte, a giro non potevo andarci. Avevo dieci anni.
Un ragazzino altissimo e grosso, goffo, impacciato, vestito sempre in pantaloncini e magliettacce da pochi soldi; abitudine che ha mantenuto imperterrito. Fuori, di notte, ci andava mio fratello, che era già un ragazzo grande; era l’estate dei suoi diciott’anni. Lui, invece, allora come ora, era magrissimo, così scheletrito da essere chiamato affettuosamente Biafra persino in famiglia. Non c’era il telefono. C’era una televisione con lo stabilizzatore, quella scatola pesantissima che si accendeva con una levetta per evitare che l’apparecchio avesse sbalzi di corrente e pigliasse fuoco; faceva, all’accensione, un rumore d’inferno, un ronzio che ho ancora nelle orecchie.
Era l’estate del 1973, e non aveva nulla di particolare. S’era tutti all’Elba, e come in ogni estate avrà pur fatto qualche giorno brutto; ma non mi ricordo altro che sole, sole a picco, e la vecchia 850 beige di mio padre che si arroventava. Mio padre si godeva ancora un anno di ferie forzate: l’anno prima, sempre all’Elba, mentre era a pescare con la canna sugli scogli a Marciana Marina aveva messo un piede in fallo e la gamba gli si era letteralmente stritolata tra due massi. Uno sculo veramente della madonna, pover’uomo. Frattura esposta di tibia e perone. E’ morto, venticinqu’anni dopo, con ancora nella gamba sinistra una sbarra di ferro con delle viti che gli avevano messo all’IOT di Firenze; la si vedeva nelle radiografie.
Si era nei primi anni ’70, ma mica nessuno se ne rendeva conto. Era tutto normale. Le cabine della spiaggia di Marina di campo erano piene di falci e martelli, fasci littori, w il Duce, camerati al rogo. Mio fratello aveva un sacco di amiche e amici, venivano a casa, uscivano e tornavano a mattina; si divertiva, usciva, e io cominciavo impercettibilmente a invidiarlo. A invidiare la libertà di far quello che si vuole. Io ero piccolo. Dovevo stare sempre appresso ai genitori. Al massimo qualche passeggiata o una corsa nei campi lì attorno. La famiglia accanto erano dei siciliani, padre madre e cinque tra fratelli e sorelle di cui quattro erano già grandi, anche più di mio fratello. Il quinto era un ragazzino della mie età, ma stava per conto suo. Io dovevo sorbirmi tutto. Le visite ai parenti, in primis. Però ancora c’era l’abitudine delle spiaggiate, e quelle erano il mio paradiso in terra.
Fetovaia
Stipati in macchina, a volte costretti a far due viaggi per portare prima la gente e poi la roba; ci si sistemava a Cavoli o a Fetovaia, con gli ombrelloni e un quintale e mezzo di roba da mangiare. Io stavo sempre in acqua. L’acqua del 1973 all’Isola d’Elba non ve la potete nemmeno immaginare. In dei posti sembra cristallo ancora oggi. Mio padre si prendeva le pinne e la maschera e andava sott’acqua; a me non me ne è mai importato niente. Sapevo nuotare benino, però. In mare mi scompariva la goffaggine. Quando mi stancavo facevo il “morto” divertendomi a emettere suoni a bocca chiusa che, nelle orecchie a fior d’acqua, sembravano strani richiami cosmici modulati. E’ una cosa che faccio sempre. Quando, quest’estate, mi butterò in mare per il primo bagno della stagione a quasi 46 anni, lo farò. E l’anno dopo, e quello dopo ancora.
Di amici e amiche non ne avevo, a parte mia cugina Rosalba. Ma era anche lei già grande, anche se con me ci stava volentieri. In quegli anni c’era qualcuno, all’Elba, che sognava l’indipendenza; e a noi ci piaceva fantasticarci sopra, immaginando Portoferraio capitale, le targhe automobilistiche con le sigle dei paesi, sbellicandoci dalle risate quando corrispondevano a quelle italiane esistenti: MC = Marina di Campo. MN = Marciana. PR = Portoferraio. CA = Capoliveri. PA = Porto Azzurro.
Tutti vivi erano ancora. La radiolina in casa sempre accesa, musica e musica. Mio fratello però aveva il mangianastri a cassette, e in casa le canzonette si alternavano a De André, ai Led Zeppelin, al progressive. “Leva quei troiai!”, gli urlavano mia madre e mia zia che volevano Celentano, Claudio Villa e roba del genere. Mio padre scuoteva il capo quando passava in radio Alan Sorrenti. Con mia cugina avevamo due passioni brucianti: Drupi e Riccardo Cocciante, ebbene sì. Quello senza la “S”. Lui non lo sa, ma quando mi sono fabbricato l’ “alter ego” parodiatore su questo sito avevo in testa anche l’estate del 1973. Quell’estate dove cominciai anche a fare parole crociate a chili interi, cercando d’andare dietro a mio padre che era bravissimo. Mi dava sempre consigli e si faceva le gare, ma ebbe ad accorgersi presto che la cosa gli stava sfuggendo dalle mani quando gli “Incroci obbligati” del numero 2161 glieli risolsi dandogli un distacco di cinque minuti e sventolandogli la rivista sul muso. E’ per questo che ancora adesso mi ricordo persino gli attori e le attrici in copertina sulle Settimane Enigmistiche di quell’estate, che sul n° 2156 c’era Kaz Garas e sul n° 2162 Robert Mitchum.
In mare giocavo a palla da solo, e lo faccio ancora quando ne ho la possibilità. Le parole crociate le faccio non più a chili, ma a quintali; e negli occhi ho sempre le stesse cose. Il portico di casa mia. Tutte le persone che vi sono passate, e ne sono rimaste poche poche. L’850 aveva il motore posteriore, e dalla griglia sortiva un odore di benzina che adoravo; a volte ci infilavo il naso per sentirlo. Polvere e sole, sole e ragnatele nel magazzino. C’erano gli interruttori vecchi, nel magazzino, ed ero affascinato da quelle levette, dai fili intrecciati, dalle lampadine avite. E dall’odore delle botti misto a quello degli agli e delle cipolle. Faceva ombra un glicine che tirarono giù anni dopo.
Non c’era mai acqua, e proprio in quell’estate fu costruito il pozzo. Il venticinque agosto ebbi una cuginetta nata morta. Era stata chiamata Irene; tanti anni dopo scoprii che il suo nome significa “pace”. Il giorno del suo funerale, a San Piero, me lo ricordo come fosse ieri. E’ anche l’unico giorno di quell’estate di cui mi rammenti che era nuvoloso, che minacciava pioggia. Musica e polvere. Musica e la televisione, l’undici di settembre, sul finire della stagione, accesa in continuazione a seguire cosa stava succedendo in Cile. Mio fratello e mio padre con la testa fra le mani a dire “maledetti, maledetti”. Ma io ero piccolo. Non s’immagina mai quante delle cose vissute da piccoli ci si portino dietro, e per sempre. E quante delle cose che non si sono potute vivere le si siano poi cercate, spesso illudendosi amaramente. Quanti miti ci siamo creati. Fanno parte di tutti noi, e li riproduciamo all’infinito, anche nelle pieghe della nostra vita.
In quel portico, in quei campi e in quelle spiagge ci vado ancora. A volte non soltanto mi rivedo bambino, ma mi metto a parlare con me stesso. Sono colloqui che non racconterò mai perché non mi riuscirebbe farlo. Ci facciamo domande e ci diamo, non sempre, delle risposte. Spesso ci accompagniamo in silenzio ed entriamo in mare. Ci mettiamo a fare il “morto” coi rumori nelle orecchie semisommerse, e ci teniamo per mano. Lui mi racconta di cosa farà e io gli racconto di cosa ho fatto; ma senza fare troppi commenti. Meglio abbandonarsi alle onde, ché le onde sanno sempre non solo dove portare, ma anche dove aver portato.
In quell’estate, mio fratello s’era portato dietro, tra le sue cassette stereo, una delle “Orme”. Si chiamava “Uomo di pezza” ed era l’unica cosa in cui s’andava d’accordo. Un diciottenne non può andare d’accordo con un bambino di dieci anni. Sono due universi distinti e inconciliabili. Di quando si ha dieci anni ci si ricorda a quarantasei, non a diciotto anni. A diciotto anni ci si gode uscire di notte compiangendo il fratellino che avrà visto un po’ di televisione, avrà fatto le parole crociate e poi sarà stato costretto a andare a letto dalla mamma e dal babbo.
S’andava d’accordo perché c’era questa canzone qui, che cantavamo tutti i giorni, ma dico tutti. Stasera m’è tornata a mente, all’improvviso. Non so, forse sarà un qualche disegno sconosciuto; ed è bene non calpestare troppo i misteri, è bene non razionalizzarli eccessivamente. Dall’estate del 1973 approda quindi a questo sito, coi suoi sogni e le sue realtà mescolate al cammino fatto ed a quello ancora da fare. La spediamo in due, io a dieci anni ed io a quarantasei. Nel gioco di bimba, dice la canzone, si perde una donna; e nei giochi di un bimbo si ritrova certe sere un uomo. La ascoltiamo insieme, in silenzio, e ve la facciamo ascoltare lanciando manciate di polvere, e schizzi d’acqua, e raggi di sole.
Riccardo Venturi, anni 10
Riccardo Venturi, anni 46