Nel mare ci sono i coccodrilli

Ho letto questo libro, previsto nel programma di letteratura della scuola secondaria di II grado di mio figlio, e devo dire che mi ha coinvolto ed emozionato molto, oltre che a farmi capire cosa vivono e patiscono tutte le persone che fuggono dal loro paese dove non c’è libertà e vivono situazioni davvero estreme sostenute solo dal forte istinto di sopravvivenza.

Nel mare ci sono i coccodrilli
Storia vera di Enaiatollah Akbari
di Fabio Geda
Genere: Romanzo, biografia
Editore: B.C. Dalai editore, 2010

 

C’era (c’è sempre) una volta un bambino.
Ma se nasci in Afghanistan, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, può capitare che, anche se sei un bambino alto come una capra e uno dei migliori a giocare a Buzul-bazi, qualcuno reclami con prepotenza la tua vita. Tuo padre è morto lavorando per un ricco signore, il carico del camion che guidava è andato perduto e tu dovresti esserne il risarcimento. Ecco perché quando bussano alla porta corri a nasconderti. Ma ora stai diventando troppo grande per la buca che tua madre ha scavato vicino alle patate. Così, un giorno, lei ti dice che dovete fare un viaggio. Ti accompagna in Pakistan, ti accarezza i capelli, ti fa promettere che diventerai un uomo perbene e poi ti lascia solo. Da questo tragico atto di amore hanno inizio la prematura vita adulta di Enaiatollah Akbari e l’incredibile viaggio che lo porterà in Italia passando per l’Iran, la Turchia e la Grecia. Un’odissea tragica che lo ha messo in contatto con la miseria e la nobiltà degli uomini, e che, nonostante tutto, non è riuscita a fargli perdere l’ironia né a cancellargli dal volto il suo formidabile sorriso e il grande amore per la vita che porta dentro al cuore.
Enaiatollah ha infine trovato un posto dove fermarsi e provare ad avere e vivere la sua età.
E questa è la sua storia.

Dal best seller di Fabio Geda (Libro dell’anno 2010 di Farheneit, edito da Baldini Castaldi Dalai) uno dei libri più commoventi comparsi in Italia negli ultimi anni e già tradotto in 31 paesi.
Una riflessione attualissima sulle immigrazioni, dolorose e pericolose in tutti i tempi, compreso il presente.
Ed una grande lezione sulla speranza e sull’umanità.

Commento: Un ottimo spunto di riflessione per le nostre giovani generazioni che non hanno sperimentato la privazione dei bisogni elementari e che considerano scontato ogni diritto, tanto da non apprezzarlo nemmeno o da non farne proprio uso, come il diritto-dovere di avere un’opinione propria.
Ottimo spunto di riflessione anche per tutte quelle persone razziste della mia generazione e non, che dimostrano nessuna tolleranza e rispetto per chi è in difficoltà.

Leda

dal libro:

Io, via da Nava, non ci sarei mai voluto andare. Il mio paese era fatto benissimo. Non era tecnologico, non c’era energia elettrica. Per fare luce usavamo le lampade a petrolio. Ma c’erano le mele. Io vedevo la frutta che nasceva: i fiori sbocciavano davanti ai miei occhi e diventavano frutta; anche qui i fiori diventano frutta, ma non lo si vede. Le stelle. Tantissime. La luna. Ricordo che, per risparmiare petrolio, certe notti mangiavamo all’aperto sotto la luna.

La terza mattina, dopo quel giorno, era una mattina d’autunno, di quelle con il sole ancora caldo che la prima neve sciolta nel vento non riesce a raffreddare, ma solo a insaporire; una giornata perfetta per far volare gli aquiloni. Stavamo ripetendo una poesia in lingua hazaragi per prepararci allo sherjangi, la battaglia dei versi, quando sono arrivate due jeep piene di talebani. Siamo corsi alle finestre per vederli. Tutti i bambini della scuola si sono affacciati, anche se avevano paura, perché la paura è attraente, quando non sai riconoscerla.
Sono scesi dalle jeep venti, forse trenta talebani armati. Sono scesi e lo stesso uomo dei giorni precedenti è entrato in classe e ha detto al maestro: ti abbiamo detto di chiudere la scuola. Tu non hai ascoltato. Ora saremo noi a insegnare qualcosa.
[…]
I talebani hanno fatto uscire tutti, bambini e adulti. Ci hanno ordinato di metterci in cerchio, nel cortile, i bambini davanti, perché eravamo più bassi, e gli adulti dietro. Poi, al centro del cerchio hanno fatto andare il maestro e il preside. Il preside stringeva la stoffa della giacca come per stracciarla, e piangeva e si voltava a destra e a sinistra in cerca di qualcosa che non trovava. Il maestro, invece, era silenzioso come suo solito, le braccia lungo i fianchi e gli occhi aperti, ma rivolti dentro se stesso, lui che, ricordo, aveva dei begli occhi che dispensavano bene tutt’intorno.
Ba omidi didar ragazzi, ha detto. Arrivederci.
Gli hanno sparato. Davanti a tutti.
Da quel giorno la scuola è stata chiusa, ma la vita, senza scuola, è come la cenere.

A questo tengo molto, Fabio.
A cosa?
Al fatto di dire che afghani e talebani sono diversi. Desidero che la gente lo sappia. Sai di quante nazionalità erano, quelli che hanno ucciso il mio maestro?
No. Di quante?
Erano venti quelli arrivati con le jeep, giusto? Be’, non saranno stati di venti nazionalità diverse, ma quasi. Alcuni non riuscivano nemmeno a comunicare tra loro. Pakistan, Senegal, Marocco, Egitto. Tanti pensano che i talebani siano afghani, Fabio, ma non è così. Ci sono anche afghani, tra di loro, ovvio, ma non solo: sono ignoranti, ignoranti di tutto il mondo che impediscono ai bambini di studiare perché temono che possano capire che non fanno ciò che fanno nel nome di Dio, ma per i loro affari.

Non ci avevo mai pensato, Enaiat, lo sai?
A cosa?
Al fatto che sentire sia molto diverso da guardare. È meno doloroso. È cosi? Permette di giocare con la fantasia, di trasformare la realtà.
Sì. O almeno. Lo era per me.

Ho detto: Mamma.
Dall’altra parte non è arrivata nessuna risposta.
Ho ripetuto: Mamma.
E dalla cornetta è uscito solo un respiro, ma lieve, e umido, e salato. Allora ho capito che stava piangendo anche lei.

 

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