La Forza della vita – Paolo Vallesi (1992)
Cerca di venire in ospedale subito la prossima volta, se no rischi di farlo in macchina il prossimo figlio” mi disse la giovane e capace ostetrica, che espresse una sana invidia per la rapidità del mio primo parto. Anche la gravidanza era andata bene, tranquilla, avevo lavorato pure quella mattina, poca cosa, senza stancarmi, non mi sarei mai aspettata che il mio bimbo nascesse proprio quel tardo pomeriggio alla 37esima settimana, a raffronto delle quaranta di prassi.
A dire dei medici è una mia caratteristica, perchè accadde così anche per il mio secondo figlio, anche se, come spesso succede, le cose andarono ben diversamente.
Quel mattino alle ore 9 il neonatologo mi disse. “la sua deve essere stata una gravidanza sofferta…” lui attendeva una risposta ma io non riuscii ad aprire bocca, ero molto provata e avevo un groppo in gola che non mi permetteva di spiccicar parola.
Ero al terzo mese di gravidanza quando morì mio padre, era sopravvissuto per anni a un ictus, al primo insperabile recupero seguì uno stato degenerativo che la tenacia di mia madre nel tenere vive le sue funzioni fisiche e mentali, rallentò di molto, finchè una notte, appena passato il Natale, si spense nel sonno. Ero preparata a questo, anche mia madre, ma non riusciva ad accettare l’idea di separarsi da mio padre, erano stati insieme una vita e avevano condiviso gioie e dolori. Abito a cinquanta chilometri di distanza e al funerale ci andai da sola. Nel 1998, prima che scoppiasse questa grande crisi, pare che gli impegni di lavoro fossero più importanti del lutto di un genitore, un professionista non abbandona mai il cliente… Per fortuna trovai le mie 5 cognate che mi avvolsero in un abbraccio globale, già sono emotiva di mio, ma nel subbuglio ormonale in cui mi trovavo piangevo come una fontana, non riuscivo a contenermi e loro, con quella solita ironia che ci è tanto famigliare, cercavano di sdrammatizzare il momento e di tenermi sù. Una parola… ma fui loro grata.
Pian piano con il passare delle settimane il dolore si chetò, la mente impegnata tra l’accudimento dell’altro figlio che era al suo primo anno di scuola materna, gli impegni famigliari e qualche ora di lavoro. Ma ero piuttosto instabile, stanca, non potevo dedicare tranquillità e tempo a me stessa e al bambino che stava per arrivare.
Sul finire della gravidanza, una sera mi recai in ospedale per un controllo d’urgenza, avevo notato strane perdite. Mi ricevette un medico piuttosto sbrigativo, seppi poi che proprio quel giorno gli era giunta notizia che il suo pensionamento sarebbe slittato di due anni ed era piuttosto innervosito. Mi visitò senza fare tante domande, sapevo che il bambino era in posizione podalica, ma in quei giorni avevo sentito strani movimenti e c’era la possibilità che si fosse girato, non mi diede nemmeno il tempo di dirglielo che maldestramente mi “ruppe le acque” e provocò il parto. Così mi trattenne in ospedale in attesa che cominciassero le doglie, che non si fecero attendere. Mi seguiva una giovane ostetrica e ritenni opportuno avvertirla che il primo parto era stato veloce, che all’ultimo controllo medico il bambino era in posizione podalica, al che la vidi spiazzata. Sembrava non sapere che fare… il ginecologo era andato a dormire e lei non si decideva a chiedere un suo consulto, intimorita dall’atteggiamento scorbutico che aveva avuto per tutto il giorno, cercò di prendere tempo. Intanto le doglie diventavano sempre più frequenti e regolari e non mi sentivo tranquilla, cercai di rilassarmi più possibile e di insistere con lei della necessità di avvertire il medico. Alla fine si decise. Fu chiamato un ecografo e in fretta e furia fu accertato che effettivamente il bambino seppur piccolo, era in posizione podalica e i parti podalici non si fanno più, per cui mi prepararono per il parto cesareo.
Non ho ben capito il criterio adottato, ma risultò che dovevo attendere il mio turno, avevano la precedenza i parti cesarei già programmati per quel mattino. Vabbè… ma io intanto avevo le doglie sempre più frequenti e cercavo pure di controllarle in qualche modo, ma sembrava che nessuno capisse… Finchè proprio nel momento in cui mi stavano somministrando l’anestesia non ce la feci più a trattenermi e mi lasciai andare e assecondai le forti contrazioni che precedono l’espulsione. Tra il tafferuglio che ne seguì, mi portarono di corsa dalla sala operatoria alla sala parto, sbandando con la barella rischiai di cadere, meno male che mi ero aggrappata forte! L’ostetrica non si trovava, il pediatra non rispondeva alla chiamata, l’unica cosa che andò a mio favore fu che fra tutta quell’equipe l’unico ad aver praticato parti podalici era proprio lui, il ginecologo che doveva andare in pensione. Così fece nascere il mio bambino senza conseguenze, era talmente piccolo… ma passò un considerevole lasso di tempo prima di sentire il suo primo vagito e alla mia continua richiesta di vederlo risposero nervosamente con dei pretesti. Risultò un bambino prematuro, era alla 37sima settimana, e immaturo, sembra che nell’ultimo mese per cause che non si sono potute accertare, non si fosse nutrito e pesava appena 2 kg, ma gli organi erano completamente formati.
Questo fu solo l’inizio del mio calvario.
Alle 3 avevo partorito, carica di adrenalina non avevo chiuso occhio, alle 9 spaccate ero al reparto prematuri per avere notizie del mio bambino. Dopo aver sentito il neonatologo incontrai una puericultrice giovane e molto gentile, me lo fece vedere dentro l’incubatrice e mi tranquillizzò, mi disse che tutto era sotto controllo, che avrei potuto andare lì quando volevo, che presto avrei potuto toccarlo attraverso gli oblò, che era importante sentisse la mia voce per stabilire fin da subito un contatto e che era fondamentale gli portassi il mio primo latte, il colostro molto nutriente e molto ricco d’immunoglobuline e cellule immunitarie.
Così dopo averlo guardato per un po’, scesi al reparto di ostetricia e andai a chiedere un tiralatte. L’infermiera di turno distrattamente mi disse che non era necessario, il bambino stava al reparto prematuri e ci avrebbero pensato loro a nutrirlo. Per fortuna ero al secondo figlio e sapevo come muovermi, per cui con tono perentorio riformulai la mia richiesta e lei ubbidì.
Il giorno dopo tornai con altro latte e trovai un’altra puericultrice, più anziana, che cambiò tutte le carte in tavola. Mi disse severa che non potevo stare lì… che c’erano degli orari prestabiliti per le visite… che non potevo toccare il mio bambino… che non serviva gli portassi il latte… Mi arrabbiai molto e tra le lacrime le chiesi a che gioco giocava, allora si addolcì e mi spiegò che era colpa dell’altra puericultrice che aveva tutte quelle idee innovative, che confondeva le giovani mamme, ma che lì le cose andavano diversamente. Veramente io avevo 38 anni, mi fidavo del mio intuito e sapevo che non me la raccontava giusta. Così nonostante le sue proteste, continuai a tornare lì regolarmente e pretesi che dessero il mio latte prima dell’aggiunta con quello artificiale. Nel frattempo il neonatologo m’informò che il bambino aveva contratto un’infezione e lo stava curando con un antibiotico. Non ero proprio tranquilla, sentivo una certa reticenza a parlare e mi era stato spiegato poco o nulla.
A notte fonda mi svegliai di botto, mi prese un’ansia improvvisa e subito ebbi la chiara percezione che fosse successo qualcosa a mio figlio. Mi sentii presa dal panico come mai mi era capitato in vita mia.
Cercai di controllarmi, ero stesa nel letto nella camera semibuia, le altre neomamme dormivano quiete, c’era chi russava leggermente e ciò mi diede la percezione di non essere sola. Poi successe una cosa di cui non parlai con nessuno per molto tempo. Come in un dormiveglia mi apparvero le sagome di mio padre, di mia nonna materna e di una zia acquisita, tre persone importanti per me, disposte chine, sui tre lati dell’incubatrice dove stava tranquillo il mio bambino, unica luce nella stanza buia.
La mia ansia si placò di colpo e lasciò il posto a una serenità improvvisa certa che il mio bambino era al sicuro.
Di questo fatto ne parlai per la prima volta qualche anno fa con una persona, che mi chiese come mi spiegassi un fatto del genere. Gli risposi che sinceramente non lo sapevo e neanche m’interessava saperlo, credo che certe cose non debbano per forza trovare una ragione, per me in quel momento è stato importante ritrovare dentro di me la speranza e la forza di reagire.
Il giorno dopo mi sentivo come una leonessa che si prende cura del suo cucciolo, andai al reparto prematuri e, manco a dirlo, lo trovai monitorato con degli elettrodi… restai calma e chiesi subito spiegazioni. Si presentò trafelato un pediatra, contrito per non aver pensato che mi potevo preoccupare, mi avrebbero dovuto avvertire che stavano testando una nuova attrezzatura per rilevare costantemente le funzioni del bambino. Era una sicurezza in più, ma per quanto gentile ed esauriente fu la sua spiegazione, era la goccia che fece traboccare il vaso.
Decisi in quell’istante di chiedere l’intervento della pediatra che aveva seguito il mio primo figlio, con la quale ero in ottimi rapporti e in quei giorni non l’avevo mai incontrata. Tornava il giorno dopo dalle ferie e l’attesi davanti al suo studio pregandola di prendere in mano la situazione; fu molto professionale, analizzò bene la cartella medica e mi spiegò tutto, fin dal principio, tutto ciò che era stato fatto per mio figlio. Corresse l’antibiotico che a suo parere era troppo generico e, determinata, mi sollecitò a occuparmi di mio figlio, di prenderlo in braccio, parlargli, cullarlo e di dargli il mio latte. Ristabilì gli equilibri e mi sentii ancora più forte, e riuscii a farmi scivolare addosso ogni tentativo della puericultrice di demotivarmi e di deresponsabilizzarmi.
Nel frattempo ero stata dimessa dall’ospedale e mi procurai qualche libro e delle riviste per acquisire le più recenti conoscenze sui bambini immaturi, in particolare approfondii i benefici della marsupio-terapia.
Ogni giorno al mattino ero lì puntuale e rimanevo fino a sera. Dopo circa dieci giorni dalla nascita, la pediatra mi chiese un parere sull’eventualità di allattarlo direttamente al seno. Le risposi che un giorno tenendolo in braccio mostrò l’istinto di girarsi verso di me aprendo la bocca, come a voler succhiare, così mi incoraggiò a provare. Sapevo bene che succhiare al biberon richiedeva una tecnica ben diversa da quella dell’allattamento al seno, e prima il bambino imparava e meglio era perchè il latte materno avrebbe accelerato il recupero del peso.
La puericultrice andò su tutte le furie… era troppo debole per esporlo a una fatica simile… non avevo latte sufficiente… avrebbe preso freddo… ma io cocciuta le dissi che erano ordini che venivano dall’alto… xD Così si rassegnò e con sua grande sorpresa il mio piccolo fagottino succhiò ben 30 grammi di latte! Poi gli diedi l’aggiunta. La volta seguente lo staccai prima dal seno, per non stancarlo troppo, le dissi… e la puericultrice ne fu contenta e mi rispose con un sorriso, da quel giorno cominciò a collaborare.
Quindici giorni dalla nascita bastarono per recuperare il peso minimo per le dimissioni e la pediatra mi chiese se me la sentivo di portare a casa il bambino, così sarei stata più tranquilla e il latte sarebbe aumentato. Non me lo feci ripetere due volte e volai via.
Credo fermamente sia necessario che la persona rimanga protagonista della propria vita, delle proprie scelte, che sappia trovare dentro di sè la forza di reagire, sappia dotarsi di una strategia e impari a risolvere i problemi che incontra. Sarò sempre grata a quella pediatra che mi ha accompagnato e ha saputo rinsaldare la fiducia in me stessa e nelle mie potenzialità.
Il settore della Sanità, come quello della Scuola richiede particolare cura, non si può operare quando si è in continua tensione e precarietà. Avere a che fare con le persone è molto diverso dall’aver a che fare con le cose. È un lavoro che richiede dedizione, passione, serenità perchè un atteggiamento propositivo unito alla conoscenza può fare dei miracoli.
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Questo episodio della mia vita mi è ritornato alla mente vedendo “Gravity”, un film che seppur non abbia una storia vera e propria, per me ha un gran significato.
Quel sentirsi soli in balia del fato, in un ambiente ostile, senza nessuna possibilità di controllo, in cui si è costretti a fare affidamento unicamente nelle proprie capacità e possibilità, non mi ha inquietato come avrei pensato. Umile e modesto l’astronauta italiano Luca Parmitano che nel 2013 ha compiuto il suo primo viaggio nello spazio, nel suo commento:
“Tutti noi che stiamo nello spazio non siamo persone straordinarie ma anzi molto ordinarie che fanno cose molto ordinarie solo in condizioni straordinarie”.
Le reazioni della protagonista Sandra Bullock, un’attrice che adoro, mi hanno coinvolto molto e la sua “visione”, benchè più nitida e reale, mi ha ricordato quella che poco fa ho raccontato. In un momento estremo ha saputo trovare dentro di sè la forza di reagire e di tentare tutto senza porsi dei limiti, perchè la mente umana non ha limiti, siamo noi a porli perchè non abbiamo fiducia in noi stessi.
Pensavo fosse un film noioso… sempre nello spazio… invece no, è passato in un battibaleno. L’ironia di George Clooney è impagabile! Credo sia stato il fattore di equilibrio nel film per non farsi prendere dalla drammaticità della situazione, immaginare di essere sola lassù nello spazio senza alcun punto di riferimento è veramente da panico! Anche i riferimenti religiosi del “santino” nella base russa e il piccolo Buddha in quella cinese, e lei, che non sa pregare perchè non l’ha mai imparato… La fede. Credere fermamente in qualcosa che sta dentro di noi può dare una forza e un coraggio inimmaginabili. Del resto rassegnarsi vuol dire accettare la sconfitta a priori, senza combattere.
Scendendo giù, a un livello più materiale, mi sono posta un quesito: ma tutti quei detriti nello spazio… diventeranno nel prossimo futuro l’ennesimo problema di smaltimento dei rifiuti?.. O lo sono già?
Leda
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Titolo originale: Gravity
Regia: Alfonso Cuarón
USA, 2012
Genere: Fantascienza, Thriller
Cast: Sandra Bullock, George Clooney
Produzione: Warner Bros. Pictures
Distribuzione: Warner Bros. Italia
La dottoressa Ryan Stone è un’esperta ingegnere biomedico che affronta per la prima volta una missione nello spazio. Assieme a lei sullo Space Shuttle l’astronauta Matt Kowalsky, il comandante, in quella che sarà la sua ultima missione prima di andare in pensione. Durante una passeggiata all’esterno dello Shuttle per alcuni lavori di manutenzione sul telescopio Hubble, vengono colpiti da un’onda di detriti di un satellite russo esploso nello spazio. I detriti distruggono la navetta spaziale e uccidono gli altri membri dell’equipaggio, lasciando i due da soli alla deriva nello spazio, senza comunicazioni con la base di Houston dato che anche i satelliti che garantivano i ponti radio sono stati danneggiati.
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MARSUPIO TERAPIA
(Kangaroo mother care)
Un bimbo minuscolo con la pelle d’ebano è accucciato sul ventre della sua mamma, che sorride felice mentre lo avvolge in uno sgargiante marsupio. Il loro respiro è quasi all’unisono, il calore dei loro corpi si mescola e si confonde. Una scena già vista in tanti reportage dal Continente Nero, direte. Nossignori, queste immagini provengono invece da un posto molto speciale: l’ospedale di Maputo, in Mozambico, e questi piccoli fagotti sono bimbi che hanno avuto troppa fretta di venire al mondo. Una condizione, quella dei prematuri, che almeno in questo angolo d’Africa non è più drammatica grazie ad una pediatra portoghese, Anna Grassya, che tratta i bimbi pretermine con un metodo efficacissimo, quello del canguro. Ispirata ai famosi marsupiali australiani, questa tecnica è stata scoperta nel 1978 da un gruppo di pediatri di Bogotà, in Colombia, che hanno invitato le mamme a tenere stretti a sé i loro piccoli, nudi, pelle contro pelle. In questo modo, il ritmo cardiaco e il respiro di madre e figlio si sintonizzano quasi subito, ma la cosa strabiliante è che, nella maggior parte dei casi, le condizioni del piccolo arrivano presto alla normalità.
Si tratta di un metodo assistenziale nato in Colombia che viene adottato con i neonati di peso molto basso ed ancora in incubatrice e che consiste nel metterlo nudo sul seno materno, a diretto contatto con la cute calda della madre, per un tempo prestabilito e sotto costante controllo. In quei momenti la madre rappresenta per il neonato tutto il suo universo: il calore, la tenerezza, una grande sensazione di benessere. E’ un metodo che, oltre a permettere un precoce contatto tra madre e neonato, influenza positivamente lo sviluppo neurologico e psicologico del piccolo. Quando si avvicinerà il momento della dimissione la madre potrà accudire direttamente ed in modo continuativo il proprio bambino. Questo avviene in una stanza apposita ove i genitori possono acquisire autonomia nel seguire il proprio bambino supportati comunque dal personale infermieristico.
La terapia del canguro
La tecnica del canguro ha dato finalmente una prospettiva alla neonatologia nei Paesi in via di sviluppo: «Sa che in questo modo la mortalità dei prematuri è stata abbattuta dal 70 al 30 per cento?», spiega la dottoressa Ornella Lincetto, che ha lavorato a questo progetto con una collega svedese e una del Mozambico proprio a Maputo. «Bisogna averle viste, certe situazioni. Nei Paesi in via di sviluppo ci sono un unico ospedale nel raggio di centinaia di chilometri, risorse umane al lumicino (un’infermiera ogni 30 neonati), due-tre incubatrici con centinaia di bimbi sottopeso in coda. E allora, che fare?», si chiede questa pediatra veneziana che oggi lavora a Ginevra come funzionaria dell’ Oms (Organizzazione mondiale della sanità). Il metodo del canguro funziona benissimo da più punti di vista: è efficace contro le infezioni, poco costoso e facilita la propensione di una madre all’allattamento, cosa utilissima ovunque, ma soprattutto in Africa e Sud America, dove il latte artificiale va subito in avaria a causa delle alte temperature. Fautrice convinta del metodo canguro, la dottoressa Lincetto, con il patrocinio dell’Oms, ha persino creato una mailing list internazionale di pediatri che vogliono dare il loro apporto, il network “Kangaroo Mother Care” (per informazioni rivolgersi alla sede Oms di Ginevra, ndr), e che si ritrovano in congresso con cadenza biennale (il prossimo si terrà a Giakarta dal 22 al 25 novembre 2000).
Ma come si spiega tanto interesse, anche nei Paesi industrializzati, per una tecnica che si direbbe superata dagli attrezzatissimi ospedali occidentali? Ce lo spiega la dottoressa Beatrice Dalla Barba, responsabile del nido dell’ospedale pediatrico di Padova, uno dei pochi in Italia ad aver adottato, insieme alle tecniche tradizionali, quella del canguro. «Venti anni di studi hanno dimostrato che i prematuri trattati con questo metodo non solo godono di un calore, quello dei corpo materno, molto più naturale rispetto a quello dell’ incubatrice, ma conquistano prima degli altri un respiro e un’ossigenazione regolare. E non è tutto: i bimbi che hanno fruito di mamme canguro sono, anche nel lungo periodo, più tranquilli e piangono meno. Qui a Padova ci sono delle stanze apposite dove le madri dei prematuri possono tenere i propri bimbi in braccio o porli in incubatrice a loro discrezione. La durata della terapia varia in base alla disponibilità della mamma e, naturalmente, alle condizioni del piccolo. Anche la postura del canguro giova: il bimbo che nasce pretermine non si è ancora completamente sviluppato, quindi non ha ancora raggiunto quella posizione raggomitolata tipica dei neonati che ormai non trovano più spazio nella pancia della mamma. Per lui è perciò più naturale stare semi-disteso in braccio. Così, a poco a poco, una tecnica nata per contrastare le carenze sanitarie nei Paesi in via di sviluppo ha preso piede anche in Inghilterra, Francia, Svezia e Italia: oltre a Padova, a Roma e a Trieste.
«Il diffondersi del canguro», continua Dalla Barba «sta andando di pari passo con una tendenza che in medicina è sempre più considerata, e cioè l’umanizzazione, per quanto è possibile, delle terapie (ricordate il film Patch Adams nel quale un Robin Williams-clown regalava il sorriso a dei piccoli malati?). La pratica del canguro, infine, ha una ripercussione psicologica estremamente positiva sulla madre del bimbo nato pretermine». Maria Maggi, una “mamma canguro”, sintetizza così la sua esperienza:
«All’ inizio avevo paura a tenere in braccio Christian, era così gracile. Temevo di fargli male e così preferivo delegare alla macchina il compito di scaldarlo, accudirlo. E, man mano che i giorni passavano, questo senso di inadeguatezza mi paralizzava sempre più, guastando i miei rari contatti col suo corpicino. Poi, la svolta: tenerlo avvolto sul mio ventre, solo con quella testina che spuntava, mi ha aiutato a diventare più disinvolta, sicura, e i nostri corpi sono riusciti finalmente a comunicare».
«Sa qual è la cosa più bella?», annuncia la dottoressa Dalla Barba. «E’ che sempre più papà stanno scoprendo il piacere di tenere il bimbo a contatto col proprio corpo: nel mio reparto, infatti, abbiamo avuto anche dei… papà canguro!».
Tratto dalla rivista: “Gioia”
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