Si può fare

Milano, 1983
Nello (Claudio Bisio) è una persona decisamente scomoda per il sindacato della CGIL, per le sue idee innovative è considerato troppo moderno. Per Sara (Anita Caprioli) la sua ragazza, invece è troppo all’antica.
Si presenta un’ottima occasione per liberarsi di lui: c’è bisogno di un dirigente per una cooperativa sociale; Nello  viene quindi spedito a fare il nuovo direttore della “Cooperativa 180”, così chiamata in onore alla cosiddetta Legge Basaglia che sta chiudendo i manicomi.
Il presidente della cooperativa, il dottor Del Vecchio (Giorgio Colangeli) che l’ha fondata per dare lavoro ai pazienti dimessi dai manicomi, non ha il tempo necessario per occuparsene, ha altri 150 pazienti in manicomio che nessuno vuole. E poi Nello come direttore avrà solo il compito di cercare nuovi appalti e organizzare il lavoro, per cui accetta.

Durante il pranzo in cooperativa il nuovo direttore tenta un primo approccio e propone a tutti di presentarsi; qualcuno sta sulle sue e mantiene le distanze, altri invece paiono essere socievoli e collaborano. Ognuno ha la sua storia, Nello pare profondamente turbato da quella di Luisa.
Il giorno successivo propone di fare l’assemblea dei soci: si tratta di discutere insieme su come migliorare il lavoro. Sono tutti un po’ perplessi e da esperto sindacalista spiega loro che «persino i giapponesi hanno capito che la forma cooperativa proprio da un punto di vista produttivo è il modo migliore per gestire le risorse umane». Ma l’incontro finisce con un KO.

Il dottor Del Vecchio spiega a Nello che non può trattare i pazienti come fossero lavoratori «la malattia mentale è qualcosa che ti isola completamente dal mondo. Per loro è una fatica anche solo parlare», deve agire con estrema cautela e non affidarsi all’istinto «questa è gente che dentro ha l’inferno».
Nello avrà pure i suoi difetti ma è una persona coerente e con sani principi, è cresciuto in fabbrica e sa bene come comportarsi. Lo hanno già capito sia Luca, il più scontroso tra i pazienti, che Gigio, che si chiama come Topo Gigio, una coppia davvero singolare con delle qualità che al perspicace direttore non sono sfuggite.

Il giorno dopo si riprende con l’assemblea. Nello cerca di  infonder loro il vero senso del lavoro: la dignità, il valore, il riconoscimento dell’essere umano, e li pone di fronte a due scelte: da una parte il lavoro assistenziale fatto tanto per, e dall’altra il lavoro che produce, entra nel Mercato e ti fa guadagnare. Si va ai voti: «L‘assemblea ha deciso: no all’assistenza».
Ma poi bisogna decidere quale lavoro fare. Segue una sfilza di idee assurde, che per Nello non sono assurde perché esprimono il desiderio di ognuno. Interviene persino Robby che è bloccato dall’autismo.
Infine è Luisa, frugando fra i suoi ricordi, a trovare l’idea giusta: lavorare il legno… «Si può fare!» dice Nello, pensando al parquet che posava da ragazzino. L’idea messa ai voti viene accolta da tutti, tranne che da Fabio: per lui bisogna chiedere al dottor Del Vecchio.

«No, signor Fabio. In una cooperativa non decide il dottore, decidono i soci».
«Ma chi sono questi soci?»
«I padroni della cooperativa. Cioè voi!»

Sono tutti un po’ sorpresi, ma la cosa sembra proprio piacergli, entrano nella parte e tra loro cominciano a chiamarsi ‘soci’!
Come prima esperienza le cose non vanno proprio bene, ma «solo chi non fa non sbaglia. Ora l’importante è imparare dagli errori» li incoraggia Nello, che dedica il fine settimana a rimediare e a terminare il lavoro, e ognuno riceve il suo compenso.

Il secondo lavoro va molto meglio. Ma una mattina il signor Ossi pare scoraggiato, il signor Fabio che ha la mania del controllo sta deprimendo tutti: i conti non quadrano. Ma è Goffredo a spifferare tutto: il dottor Del Vecchio dice che non possono fare un lavoro vero. Nello si fionda da lui.

«Perchè come medico lo so, loro sono assolutamente incapaci di sostenere le tensioni, le responsabilità di un lavoro vero».
Nello però non è un medico e non è lì a dirigere un ospedale, è lì a dirigere una cooperativa di lavoro e in quanto tale li tratta come dei lavoratori.
Ma non è facile rimediare appalti quando gli operai sono dei matti… Con un escamotage riesce ad ottenere un lavoro in un atelier d’alta moda. A lavori iniziati Nello si deve assentare, è morto Berlinguer e va a Roma per partecipare ai funerali. Nomina il signor Fabio responsabile del cantiere e gli raccomanda di rispettare la scadenza dei lavori, Fabio non se lo fa ripetere due volte e assume il tono di un burbero ‘capetto’.
Ma c’è un contrattempo: è finito il legno! Stanno per andare tutti in paranoia, quando arriva Robby con i legni di scarto; Luca e Gigio intuiscono, si guardano e si mettono subito all’opera per combinarli. Ne esce un mosaico alla cui vista Nello reagisce con disappunto: è la stella delle Brigate rosse che hanno visto sui muri in strada! Ma l’art director (il direttore artistico) lo trova fantastico e vuole altri sette mosaici.
Nei giorni successivi arrivano altre ordinazioni e tutti si gasano parecchio, Fabio diventa pure contabile! Nello conosce bene le peculiarità di ciascuno e le mette a frutto, delegando i vari compiti: ognuno diventa lo ‘specialista’ di qualcosa. Robby a modo suo reclama un ruolo, e – con il vestito giusto – diventa il ‘Presidente’.

Un giorno Fabio va in crisi, sembra impazzito, un infermiere tenta di bloccarlo ma interviene Nello che con calma lo ascolta e si fa spiegare cosa è successo. Il problema è che Luca è a KO.
«Io non ce la faccio, le medicine mi mangiano la forza. Mi viene vergogna, non è giusto che uno ‘specialista’ dorma sopra i sacchi».
Luca è considerato ‘pericoloso’ pertanto prende la medicina tre volte in più la dose degli altri, i quali soffrono gli effetti, ma in misura minore. Nello incalza il dottor Del Vecchio affinchè diminuisca la dose dei farmaci, ora che lavorano stanno molto meglio, ma il dottore è irremovibile.
Entra in scena a questo punto il dottor Furlan (Giuseppe Battiston) che si meraviglia che uno come Nello, che ha messo su tutto quel ambaradan, non abbia mai sentito parlare di Basaglia e della nuova psichiatria.

«La malattia mentale è un’invenzione degli psichiatri, perché uno comincia con una cosa da niente, una monada che ti passerebbe già solo a stare al mondo, e poi si ritrova con un Del Vecchio qualsiasi che pur di non avere casini ti riempie di pastiglie».

Nello con l’appoggio del dottor Furlan, propone ai soci della cooperativa di uscire dalla tutela del centro psichiatrico, traslocare in una nuova sede e ridurre del 50% le dosi dei farmaci.
«Quindi il socio è visto prima di tutto come lavoratore, e solo in caso di necessità come persona con problemi mentali».
Sono tutti riuniti in assemblea e viene chiesto loro se sono d’accordo, ma Fabio si fa prendere dalla paura e vota no, a ruota anche gli altri sono contrari. Sconcertato Nello si sta per arrendere quando interviene Luca che firma a favore, e così Gigio, e così tutti gli altri…

Seconda stella a destra,
questo è il camminoe poi dritto fino al mattinopoi la strada la trovi da teporta all’isola che non c’è.

[…]

E ti prendono in giro
se continui a cercarla,
ma non darti per vinto, perché
chi ci ha già rinunciato
e ti ride alle spalle
forse è ancora più pazzo di te.

 (L’isola che non c’è – Edoardo Bennato, 1980)

I soci della cooperativa una volta ricevuti i fondi dall’Unione europea in quanto impresa innovativa, si trasferiscono in una nuova sede dove sperimentano una propria autonomia.
Ed è tutto un altro vivere…
Ma nella società avere a che fare con una mentalità che “è forte con il debole e debole con il forte” non risulta facile. Anche il rapporto con la propria sessualità repressa non è uno scherzo, non essendo più sedati dai farmaci riemergono forti le pulsioni che non sanno ben gestire.

Arriva il momento in cui c’è il bisogno di altri posatori, Nello si reca in manicomio ma rimane sconvolto nel vedere tutte quelle persone rinchiuse, e addolorato nel non poter dare loro una qualche speranza. Ne parla con Sara che nonostante tutto lo ha sempre sostenuto, lui vorrebbe allargare la cooperativa e magari essere un esempio per gli altri, così da riuscire a svuotare davvero i manicomi. La sua idea è cercare di vincere un appalto a Parigi… ma altre vicissitudini l’attendono.

Dai titoli in coda: il film è ispirato alle storie vere delle cooperative sociali nate negli anni Ottanta per dare lavoro alle persone dimesse dai manicomi. Tra queste la cooperativa “Noncello” di Pordenone, dove si faceva davvero parquet e dove i dirigenti dicevano “Si può fare” ai loro soci.
Oggi in Italia esistono oltre 2500 cooperative sociali che danno lavoro a quasi 30.000 soci diversamente abili.
Questo film è dedicato a tutti loro.

Commento: un film assolutamente da vedere, affronta il tema della malattia mentale toccandolo in modo molto delicato ma reale. La bravura di Claudio Bisio che si cala nella parte in modo naturale, è sostenuta dal resto degli attori ognuno con una particolare identità. È interessante vedere come il sindacalista si sa adeguare alla situazione e restituire una dignità a ognuno dei soggetti, rendendoli responsabili di se stessi e della cooperativa… spesso nel film si sottolinea questo aspetto: ognuno è responsabile per sé ma anche per gli altri.
Ci sono delle scene davvero esilaranti nel film, molto simpatiche, anche molto intense.
Speciale la colonna sonora caratterizzata da influenze balcaniche e da una potente struttura orchestrale firmata da Pivio e Aldo De Scalzi per il film, presentato come “Evento Speciale” alla terza edizione Festival di Roma.

Leda

Titolo originale: Si può fare
Regia: Giulio Manfredonia
Italia, 2008
Produzione: Rizzoli Film
Distribuzione: Warner Bros

Regola n°1 – Stare sul pezzo
Regola n°2 – L’attrezzo di lavoro è come la mamma, chi lo perde resta orfano.
Regola n°3 – La posa vuole gesti delicati, come quando si prende per mano la fidanzata.
«Scusi, lei non, non lavora?»
«Io no, faccio miracoli».

«Bravo! Bene, ne avremo bisogno».

Ma perché ci guardi così?
Siamo matti, mica scemi

Che ruolo può avere all’interno di una società
uno che non parla e il cui curriculum è misero?
“IL PRESIDENTE”
Robby tu sarai il Presidente.

Tu sei pazzo!
Lo so…

Siamo fuori da Tuttocittà.
Queste strade non esistono…
Devi tornare a Tuttocittà.

Nello: Io non gli do ragione solo perché sono matti.
Li ho sempre trattati alla pari. Se mi fanno incazzare,
mi incazzo: questo è rispetto.

Dottor Furlan: Ma va in mona.
Loro che ti votano contro, è la tua vittoria più bella.
Non te ne sei reso conto?

Dai manicomi ai
Centri di salute mentale

Franco Basaglia nel 1961 iniziò a Gorizia (Friuli Venezia Giulia) il coraggioso e lungo percorso per costruire un nuovo modello di rapporto con la malattia mentale, proiettato verso il concetto di “salute mentale” destinato a  diffondersi negli anni successivi anche nel resto d’Italia.

Memorabile il «Mi no firmo» dichiarato da Franco Basaglia arrivato da poco a Gorizia, davanti al registro delle contenzioni in cui venivano scritti i nomi di chi la notte prima era stato legato al letto.

Nei manicomi era infatti consuetudine praticare la contenzione per i pazienti più difficili, ossia legarli mani e piedi ai letti, o costretti all’immobilità con la camicia di forza, al fine di proteggere loro stessi e gli altri. Era d’uso anche sedarli, trattarli con l’elettroshock, la lobotomia, il coma ipoglicemico progressivo indotto da una terapia a base di insulina, le docce ghiacciate e i farmaci sperimentali.
Con l’internamento veniva recisa ogni relazione affettiva e sociale, e chi prestava loro assistenza era percepito come un carceriere che privava il malato di tutto, di un libro, di una sigaretta…

«Una legge antica ancora in bilico tra l’assistenza e la sicurezza, la pietà e la paura, continua a stabilire il confine fra l’uomo che di fronte alla società ha il diritto di essere difeso, e il malato che in quanto malato perde questo diritto perché la società lo giudica pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo.
Sorge una domanda: se il malato di mente è da ritenersi soprattutto pericoloso, le regole su cui si fonda l’istituzione che deve occuparsi della sua cura sono state studiate in funzione di questa pericolosità, o della malattia di cui soffre?
»

Sergio Zavoli – dal servizio giornalistico I giardini di Abele (1968)

Quella di Basaglia è una formazione umanistica, che guarda alla persona cercando nel malato l’essere umano, non l’etichetta, non la diagnosi. Una formazione anomala per la psichiatria dell’epoca che era dominata da una smisurata fiducia nelle scienze fisiche e sperimentali, ritenute capaci di dare risposte ai fenomeni, ai problemi e ai bisogni dell’uomo, e nel progresso scientifico-tecnologico (Positivismo scientista e lombrosiano). Gli psichiatri erano più abituati a manipolare le malattie che non a occuparsi dei malati, più abituati alle psicosi che al trattamento delle nevrosi.

Il Positivismo – è un movimento filosofico e culturale dell’Ottocento nato in Europa, in particolare in Francia, che si fonda sulla fiducia nella scienza, nella razionalità e nel progresso. L’idea è che  il vero sapere derivi solo dalla scienza, dall’osservazione dei fatti e dall’uso della ragione, rifiuta quindi spiegazioni religiose o metafisiche.
Questa corrente di pensiero trainata dalle rivoluzioni industriali e per certi aspetti simile all’Illuminismo, si diffuse particolarmente nella seconda metà del 1800 influenzando anche la nascita di movimenti letterari come il Verismo in Italia e il Naturalismo in Francia, correnti che cercavano di rappresentare la realtà oggettivamente.
I positivisti credevano che grazie ai progressi della scienza e della tecnica la società sarebbe progressivamente migliorata. Ma alla fine del secolo questa visione, così come le certezze ottocentesche entrarono in crisi, consapevoli che non tutto può essere spiegato con il metodo scientifico. L’uomo non appare più dominato dalla sola ragione, ma da forze che la sola scienza non riesce a spiegare, a comprendere la complessità della psiche umana.

Se la passione è un’amorosa follia,
un delirio che sfugge a scelte razionali,

la “follia” è l’evasione in un personale mondo
inventato, se la realtà diventa invivibile.

Le tappe salienti che portarono alla cosiddetta “riforma Basaglia”, figura di spicco di una schiera internazionale di ricercatori e innovatori, ebbero inizio nel 1968 con la presa di coscienza che l’assistenza psichiatrica in Italia era concepita più come detenzione che non come luogo di cura. Il Parlamento approvò notevoli modifiche alla legge 36/1904.
Con la Legge 132 del 1968 proposta dall’allora Ministro della Sanità Luigi Mariotti, venne fissato il numero di posti letto per rendere un po’ più dignitose le condizioni di vita dei malati, e introdotto il ricovero volontario. La persona affetta da disturbi mentali era considerata guaribile e recuperabile per la società.
Con la Legge 431 del 1968 si delinearono le varie professionalità mediche, di assistenza sanitaria e amministrativa degli ospedali psichiatrici. Venne abrogato il provvedimento di iscrizione al casellario giudiziale in caso di ricovero in manicomio, e garantito il mantenimento dei diritti e della capacità giuridica, fattori che resero possibile la fondazione di cooperative di lavoratori.

Franco Basaglia in collaborazione con la moglie Franca Ongaro nel 1969 pubblicò il libro fotograficoMorire di classe. La condizione manicomiale” edito da Einaudi, rendendo pubbliche le condizioni infernali all’interno dei manicomi.
Nel 1970 Basaglia lasciò Gorizia per dirigere l’ospedale di Colorno, stabilendosi in provincia di Parma (Emilia Romagna).
Nel 1971 si trasferì quindi a Trieste dove ottenne l’incarico di direttore dell’ospedale psichiatrico, che tre anni dopo verrà riconosciuto come esperienza pilota nella ricerca psichiatrica dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Nel frattempo fondò la società Psichiatria Democratica, come movimento per la riforma della psichiatria e per la liberazione del malato dalla segregazione manicomiale.

«Ci restano dunque due vie da seguire: o noi decidiamo di guardare il malato in faccia senza cercare di proiettare su di lui il male da cui non vogliamo essere colpiti, e lo consideriamo come un problema che, facendo parte della nostra realtà, non può essere eluso; o noi ci affrettiamo − come già la società si sforza di fare − di calmare la nostra angoscia alzando una nuova barriera, per stabilire una distanza appena raggiunta tra loro e noi, e costruiamo senza indugio un magnifico ospedale».

L’ospedale è l’inferno, la sua funzione è anche quella di imbavagliare le creazioni artistiche: il mondo oggi non accetta i sognatori e gli artisti “improduttivi”. Essi non hanno altra scelta che quella del manicomio, unico luogo dove la follia sia permessa, dove la follia si trasforma in monumento per gli psichiatri.
A sollevare un gran dibattito sulla questione dei manicomi fu il documentario “Matti da slegare”, realizzato da Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli nel manicomio di Colorno, che vinse il “Gran premio della giuria” al Festival del cinema di Berlino del 1976.

La Legge 180 del 1978 più nota come Legge Basaglia, promossa dal deputato e psichiatra Bruno Orsini viene approvata. È la prima legge al mondo a stabilire la chiusura dei manicomi, un lungo processo che richiese molti anni. L’ultimo a chiudere nel 1999 fu l’ospedale psichiatrico San Niccolò di Siena, in Toscana.
La legge inoltre regolamenta il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) nei specifici casi previsti e nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici secondo l’articolo 32 della Costituzione. Di norma i trattamenti sanitari sono volontari.

La follia è una condizione umana

La 180 venne assorbita successivamente dalla Legge 883 del 1978 che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale. Inizia un lungo cammino irto di difficoltà, una delle quali è la nuova formazione degli operatori che continua ad essere prettamente sanitaria. Ma il farmaco da solo non è la cura: la Legge 180 insegna che la salute mentale è ben altro.

Sergio Zavoli chiede:
«Francamente, le interessa più il malato o la malattia?»

Franco Basaglia risponde:
«Oh, decisamente il malato!»

Con il fine di garantire il diritto alla cura per tutti, i servizi di salute mentale e il compito di realizzarli viene affidato agli enti locali. Sono previsti dalla legge:

  • i Centri di Salute Mentale (CSM), il centro di primo riferimento per i cittadini con disagio psichico che coordina i vari interventi nell’ambito territoriale;
  • i Centri Diurni (CD), con funzioni terapeutico-riabilitative per chi la sera torna nella sua abitazione;
  • le Strutture Residenziali (SR), sono extraospedaliere e vi si svolge una parte del programma riabilitativo terapeutico e sociale;
  • il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC), che si trova all’interno della struttura ospedaliera e in cui avvengono ricoveri volontari e obbligatori;
  • il Day Hospital psichiatrico (DH) per prestazioni diagnostiche e terapeutico riabilitative a breve e medio termine.

Se oggi è fattibile pensare che nessuna cura delle malattie mentali è compatibile con l’emarginazione della persona malata, con la privazione della sua libertà, della sua dignità e dei suoi diritti civili, è perché quei cambiamenti  sono stati realizzati.

«Quello che a noi interessa è stare meglio, meglio che si può a partire da ciò che siamo. Non a partire da un modello che rifiutiamo».
Claudio Misculin regista e attore, dirige l’Accademia della follia.

«Devo fare azioni per lottare contro lo stigma, il pregiudizio, l’emarginazione e l’esclusione».
Il dottor Peppe dell’Acqua dirige il Centro di Salute Mentale di Trieste, trent’anni fa era a fianco di Basaglia proprio mentre si concretizzava l’idea della chiusura dei manicomi.

Come è gestito il disagio mentale in Italia, specie con i più giovani? Occorre scalfire la rete di silenzi che circonda la sofferenza dei pazienti psichiatrici in Italia.

Non sempre quello che provi è così folle come credi
It’s Kind of a Funny Story – 5 giorni fuori

Il disagio mentale e i disturbi della personalità sono sempre più in aumento, spesso si finisce per “perdersi” e sviluppare dipendenze da stupefacenti, alcool e abuso di farmaci.

Ma come spesso accade, c’è chi punta a trasformare tutto in affari e profitto: nascono così delle cliniche definite sulla carta “residenze terapeutiche-riabilitative”, prendendo ingenti finanziamenti pubblici grazie a convenzioni con le Regioni.

No alla sistematica disumanizzazione dei malati

Un gruppo di uomini e donne che hanno detto no sia alla ghettizzazione sia alla medicalizzazione delle loro patologie.

«Conosco almeno due tipi di psichiatria: la psichiatria per i poveri e quella per i ricchi. C’è un proverbio calabrese molto interessante a questo proposito che dice: “Chi non ha non è”. Effettivamente chi non ha non è, perché quando una persona disturba, malata o meno che sia, va a finire o in manicomio o in carcere».

Franco Basaglia

Che i poveri siano matti è solo un’ipotesi letteraria, in realtà possono esserlo sia i poveri che i ricchi. Ma i poveri di fronte alla malattia sono indifesi e facilmente si perdono. Così come, in un mondo che non si costruisce sull’uomo, è indifeso e si perde chi non ha le forze per resistere alle contraddizioni di quell’altra prigione, orgogliosamente abitata dai sani.
Chi può criticare la realtà se ne difende, Pietro non c’è riuscito e ne è fuori. Con lui tutta la gente dei giardini di Abele, un’armata Brancaleone che si aggira confusa alla nostra periferia.

«Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie.
I matti son simpatici, non come i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita!»

Alda Merini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *