Bambini in ospedale

Verso la fine degli anni Settanta, alla Scuola superiore l’insegnante di psicopedagogia ci presentò una lista di libri: ogni studentessa doveva sceglierne uno da leggere. A turno, ogni settimana in classe si riassumeva il capitolo o la parte letta, tutte prendevamo appunti sui passi più salienti e potevamo discutere o chiedere spiegazioni su ciò che ci risultava poco comprensibile.
Al massimo due persone potevano anche scegliere lo stesso libro, in quel caso il lavoro sarebbe stato di gruppo e il voto diviso, per cui i libri dovevano essere due.
Io scelsi un testo sul disegno infantile, piuttosto complesso. Al termine del lungo lavoro in classe decisi di acquistare anche “Bambini in ospedale” su cui aveva lavorato un’altra mia compagna di classe perché lo trovai fondamentale, specie per il tirocinio (per il quale era previsto un monte ore nel programma scolastico) che avrei dovuto svolgere nei reparti pediatrici in ospedale.
Il tema mi ha colpito molto, e mi ha consentito di cogliere il profondo disagio dei bambini ricoverati, specie se molto piccoli, che a quel tempo sovente potevano vedere i loro genitori solo durante le ore di visita. È una cosa impensabile al giorno d’oggi, ma allora spesso si dava poco valore alla salute psicologica di un individuo, specie per un bambino perché si riteneva non capisse…

Bambini in ospedale
con Il bambino è dell’ospedale? del Seminario degli studenti di biometria e statistica dell’Università di Milano,
di James Robertson
Traduttore: Leo Nahon
Feltrinelli, 1973

Quando ha la sfortuna di dover entrare in ospedale, il bambino diventa dell’ospedale. Ci si preoccupa di curarlo, di guarirlo fisicamente, ma non si pensa ai gravi danni che lo choc dell’ospedalizzazione nel suo aspetto di distacco dalla famiglia e soprattutto dalla madre, può provocare alla sua maturazione psichica.

James Robertson, scozzese, è operatore di psichiatria sociale e psicoanalista. Si occupa particolarmente di ricerche sugli effetti della separazione del bambino dalla madre dovuta all’ospedalizzazione. Ha illustrato le sue esperienze in proposito con alcuni documentari divenuti famosi nel mondo medico.

Occorre precisare che nel libro si fa sempre riferimento alla madre biologica, la quale, secondo le consuetudini del tempo, era l’unica ad occuparsi dei figli; oggi il discorso vale per quella persona che si occupa prevalentemente e in modo continuativo del neonato, stabilendo un profondo rapporto d’amore.

Ecco un breve estratto dal libro:

A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti allorché, sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva e singhiozzava era Pinocchio.
“Quando il morto piange, è segno che è in via di guarigione,” disse solennemente il corvo. “Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega,” soggiunse la civetta, “ma per me, quando il morto piange, è segno che gli dispiace di morire.”

Carlo Collodi

Il fenomeno dell’assestamento è ingannevole, e un osservatore superficiale può essere facilmente tratto in inganno e pensare che il bambino si è adattato in maniera soddisfacente e non è più necessario preoccuparsene; tuttavia è assolutamente certo che questo stesso bambino “assestato” e tranquillo dimostrerà al suo ritorno a casa, attraverso il suo comportamento, la natura artificiale di quella contentezza.
[..]
Le mie osservazioni hanno messo in evidenza tre fasi principali di questo processo di “assestamento”: la protesta, la disperazione, la negazione.

La protesta. In questa fase iniziale, il piccolo ha un forte bisogno della madre e nutre ancora la speranza che ella risponderà al suo pianto. È estremamente addolorato per averla perduta, è confuso e spaventato dall’ambiente non famigliare, è in ansia e cerca di ricatturare la madre esercitando tutte le proprie limitate risorse.

La disperazione, che gradualmente subentra alla protesta, è caratterizzata da un bisogno continuo e conscio della madre accoppiato a un crescente sentimento di sfiducia. Il bambino è meno attivo e può passare delle ore a piangere monotonamente. È distaccato e apatico, non pone richieste all’ambiente che lo circonda ed è in uno stato di profonda malinconia. È questa la fase tranquilla che viene a volte erroneamente interpretata come diminuzione del disagio del bambino, come segno di un suo “assestamento”.

I bimbi che restano in ospedale più a lungo, nelle condizioni tipiche in cui vanno accuditi da varie persone, entreranno nella fase della negazione.

La negazione. In questa fase il bambino mostra maggiore interesse per l’ambiente che lo circonda, e ciò può essere accolto come un segno positivo. In realtà si tratta di un segno di pericolo: il bambino non può tollerare l’intensità del disagio, e di conseguenza tenta di sfruttare al meglio la situazione rimuovendo i suoi sentimenti per la madre. …Se non ha la possibilità di trovare un essere umano che possa sostituire la madre e se fa un’esperienza di attaccamento a una serie di infermiere ognuna delle quali poi se ne va, il bambino entro un certo tempo arriverà a comportarsi come se per lui non avessero significato nè la cura materna nè il contatto con gli esseri umani. Ed ecco il ragazzino di tre o quattro anni che incanta i medici e gli amministratori in visita per la sua allegria, socievolezza e facilità di rapporto. Ma questa socievolezza è superficiale e casuale, il bambino non è attaccato a nessuno, si trova in uno stato estremamente anormale per la sua età; se questo atteggiamento, stabilizzandosi, diventasse una caratteristica della sua personalità, lo porterebbe più tardi a gravi situazioni di disadattamento.

Se la permanenza è piuttosto lunga e se il sistema infermieristico è di tipo tradizionale, dopo un certo tempo il piccolo sembrerà non aver più bisogno non solo della madre, ma addirittura di nessun tipo di sostituto materno, entrando in uno stato che, se manifestato in famiglia, causerebbe giustamente una notevole preoccupazione.

…La sua vera vita è altrove, in quella famiglia e in quella collettività da cui nasce e viene, nelle quali deve tornare e crescere, lontano dalle quali anche la luce è senza calore e il gioco senza gioia.

La cosiddetta “paura del camice” si può riscontrare ancora oggi, in genere è la conseguenza del comportamento di medici che non sanno rapportarsi in modo adeguato nei confronti dei bambini piccoli. Può avere conseguenze di una certa portata, quali disturbi del sonno, pianto all’avvicinarsi di persone non della famiglia, rifiuto di farsi toccare dagli adulti. Occorre un po’ di tempo, sensibilità e pazienza perchè il bambino superi questo momento con i disagi che ne conseguono, sperando nel frattempo di non dover ripetere l’esperienza.

Leda

“La salute dovrebbe essere costituita da un’interazione d’amore con l’essere umano, non una transazione d’affari”.

Patch Adams

 

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