Giochi, ricordi ed emozioni

Non mi ero mai accorta da bambina che ci sono persone che giocano solo ed esclusivamente per vincere, perdendo di vista il vero succo dell’attività ludica che è il puro divertimento, il piacere di fare ed ottenere qualcosa senza uno scopo ben preciso se non quello di divertirsi e di stare bene.
Alle scuole superiori ad esempio durante la pausa prima delle ore pomeridiane, io e la mia compagna di banco amavamo giocare a “Machiavelli” , un gioco con le carte che mi ha sempre preso molto, più durava e maggiore era il divertimento. È capitato di avere la chiusura in mano… una breve pausa… uno sguardo d’intesa… un sorriso sghembo… e il bluff: sul tavolo comparivano nuove evoluzioni che scombinavano tutto e il gioco continuava con le poche carte che ci rimanevano in mano finché non finivano tutte sul tavolo. Il vero piacere era proprio nel gioco e non nel vincere l’una sull’altra.

Una sera d’estate negli anni Ottanta al mare imparai un altro bel gioco a carte: “Pinnacola“.
Ero arrivata il giorno prima per trascorrere una settimana di vacanza da sola in una piccola pensione. Nel dopocena un gruppetto di persone stava giocando a carte e uno di loro, un ingegnere milanese, mi chiese se volevo unirmi alla compagnia, mancava la quarta persona per poter giocare a Pinnacola, un gioco che si fa a coppie. Accettai e in breve mi spiegarono le regole, che non erano molto diverse da quelle del Machiavelli, ma il gioco era molto più divertente proprio perché si interagiva anche con le carte del proprio compagno di gioco. Così tra una combinazione a l’altra, ebbi modo di conoscere queste persone: un padre con una figlia piccola un po’ depresso per una recente separazione, l’ingegnere che costruiva ponti una persona umile e ammodo, accompagnato dal nipote trentenne un yuppie della Milano da bere, uno che parlava tanto ma diceva poco.
Finì che con loro trascorsi tutta la breve vacanza. L’ingegnere col gommone mi fece conoscere dei posti bellissimi e inimmaginabili al largo di Lignano Sabbiadoro raggiungibili solo via mare e con la bambina nuotammo in un’acqua profonda e trasparentissima, non avevo mai fatto il bagno in alto mare. Stavamo ore ad ascoltare l’ingegnere che era una fonte inesauribile di racconti di vita e di saggezza, essendo della vecchia generazione sapeva essere un vero gentleman e se la rideva alla grande per l’affanno con cui il nipote tentava invano degli approcci maldestri nei miei confronti.

Il piacere di giocare fine a se stesso l’ho imparato nell’infanzia con i miei fratelli con le interminabili partite a Monopoli durante le vacanze estive, sul tavolo del cortile di casa sotto l’ombra delle viti. Si univa sempre qualche amico così le pedine non bastavano mai. La mia era sempre la donnina, il fiasco lo prendeva mio fratello quattro anni più grande di me, il vaso quello maggiore di due anni e il più piccolo aveva l’esclusiva sul funghetto. Il più grande, in quanto tale voleva sempre gestire la banca, ma aveva la tendenza a barare e quando mia madre sentiva uno scoppio di risate sapeva che l’avevamo beccato in flagrante 😅

Come quella volta quando organizzò Il gioco dei mestieri. Ognuno di noi aveva un ruolo, lui come al solito assumeva ruoli di un certo spessore: gestiva la Posta e faceva l’imprenditore…
Mia madre in quegli anni lavorava in casa, regolarmente retribuita per una ditta metalmeccanica, avvolgeva le matasse di rame nei motori elettrici. Prima di inserire la matassa in ogni fessura occorreva infilare una cartina spessa e nera e sovente questo compito toccava a noi figli ed era una cosa che non ci piaceva proprio, primo perché rilasciava quel pulviscolo di ferro dall’odore acre che ci rendeva le mani ruvide, e secondo occorreva un’infinita pazienza e attenzione, perché se mal posizionate, nell’inserire la matassa le cartine scivolavano di lato e scattavano le imprecazioni di mia madre. Beh, il genio di mio fratello nel ruolo dell’imprenditore quell’estate ci risparmiò parecchio lavoro, perché compito della sua fabbrica virtuale era proprio quello di inserire quelle cartine e ai suoi dipendenti (un gruppetto di nostri amici partecipava al gioco) veniva corrisposto un salario (con i soldi del monopoli) che poi spendevano per utilizzare il taxi guidato da un altro dei miei fratelli, che consisteva nel salire a cavalcioni sulla scopa, come quella di Harry Potter solo che la nostra non volava :-). Oppure venivano spesi nella taverna che gestivo io, allestita nella cantina di casa: con tanto di tavolini e panche e le stoviglie (quelle delle bambole), io preparavo il pranzo con le bistecche virtuali, che altro non erano che grandi foglie di gelso battute con un sasso. Usavamo prendere da bere per finta con una caraffa dal rubinetto di una botte vuota, solo che un giorno a nostra insaputa la botte venne riempita, il virtuale divenne reale e con due dita di vino finimmo tutti ubriachi! 😌 Naturalmente seguirono rimproveri e minacce che ci fecero desistere, e il gioco continuò.
Oltre a fare l’imprenditore, il più grande gestiva anche la Posta, avevamo preparato buste e francobolli con le nostre mani, e con i soldi del monopoli li compravamo per spedire le lettere. Nacque il sospetto che lui leggesse le lettere prima di recapitarle, sebbene le buste fossero chiuse con la colla. Così escogitammo uno stratagemma: uno dei miei fratelli mi scrisse una lettera in cui mi diceva delle cose non vere su nostro fratello che gestiva la Posta, dandogli dello stronzo. Beh, dopo pochi minuti dalla spedizione quello stronzo arrivò davvero e intendeva menarlo per le bugie e le offese che aveva scritto!… Per cui i sospetti divennero certezze! 😏

Un’altra estate, essendo in prossimità di nuove elezioni politiche la provincia aveva rinnovato il manto stradale con un bell’asfalto denso e nero, il periodo coincideva con le Olimpiadi che davano in TV, così con gli amici ci venne l’idea di fare le gare di atletica. La strada spesso era il nostro campo da gioco perché negli anni Settanta era poco trafficata, non c’erano molte auto come adesso e poi andavano tutti molto più piano. Così con del gesso bianco tracciammo le linee necessarie e organizzammo corse di velocità, maratone, salto ad ostacoli, lancio del peso (un sasso) naturalmente tutto con materiale di recupero.
Gareggiai anch’io nella corsa di velocità, svelta lanciai le ciabatte di plastica al lato della strada e scattai sulla linea di partenza con una lunga falcata, ma poi finii lunga distesa sull’asfalto e mi raschiai mani e ginocchia. Non avevo tempo di salire in casa, così andai alla fontana e con l’acqua gelida mi pulii la ferita e mi legai stretto un fazzoletto che portavo sempre in tasca per quella evenienza (che capitava spesso) e tornai a giocare.

L’iniziativa più bella, e che ogni anno procurava le ire di mia madre, era il gioco a nascondino. In una corte vicina c’era un’altra famiglia numerosa come la nostra, anzi avevano un fratello in più, e per diverse estati consecutive con gli amici si davano appuntamento verso l’imbrunire per giocare a nascondino. La mia amica d’infanzia faceva parte di questa famiglia e mi veniva ad avvertire, così sgattaiolavo via e mi univo alla compagnia composta da ragazze e ragazzi di tutte le età, anche maggiorenni, ma mentre noi piccolini ci nascondevamo vicino dove si “ciupava” (faceva la conta), quelli grandi invece andavano a nascondersi anche in luoghi lontani per cui per loro il gioco finiva sempre a tarda notte.
Ogni volta io e la mia amica venivamo scoperte subito perchè ci nascondevamo o nel cesso, che si trovava a un lato della corte e puzzava parecchio (per cui quando ci trovavano eravamo pure contente), oppure ci infilavamo nello stretto corridoio tra due case dove si annidavano i pipistrelli. Una volta trovai un bel nascondiglio, ma ci beccarono per le risate smorzate che non riuscivamo a trattenere.
Poi puntualmente prima che fosse buio, venivo prelevata da mia madre con qualche scapaccione e mi piangeva il cuore andare via perchè mi divertivo un sacco lì.

Diversi anni più tardi, sedicenne, organizzai io una mega caccia al tesoro a cui parteciparono tanti ragazzini suddivisi in due squadre, ognuna con un percorso diverso. Li feci correre da un capo all’altro anche per uno o due chilometri, quando s’incontravano se ne dicevano di tutti i colori e ridevano contenti. Nascosi un notevole numero di bigliettini dove era indicato il luogo in cui trovare il bigliettino seguente, con un indizio che andava decifrato. Usai anagrammi, rebus, il gioco dell’impiccato, oppure si doveva cercare una specifica persona che avrebbe dato loro la risposta attraverso l’alfabeto muto che usavamo spesso, oppure con il codice Morse che avevo trovato nel libretto da scout di mio fratello, o con indovinelli, scioglilingua da ripetere più volte, e altro ancora suggerito dalla fantasia. Giocarono per l’intero pomeriggio e tornarono a casa stremati, ma molto felici all’ora di cena 🙂

Mi ricordo anche di un autunno quando ero piccolina, si era nel periodo della Fiera del paese e noi ragazzini ci andavamo di giorno. Mi piaceva tanto salire sulla giostra degli aeroplani ma soffrivo di vertigini, così ogni volta due dei miei fratelli mi facevano salire e sedere in mezzo a loro e così stretta mi sentivo al sicuro e mi divertivo un sacco. Gli adulti invece ci andavano la sera.
In una di queste sere in cui eravamo rimasti a casa da soli, i miei fratelli improvvisarono per me e per mio fratello più piccolo la giostra della casa della strega in cui non eravamo mai entrati ed eravamo curiosi di sapere cosa succedeva. Così ci fecero sedere bendati sull’asse di legno che serviva ad allungare il tavolo, sorretta dai più grandi e percorremmo lentamente il corridoio entrando nelle camere, in ognuna delle quali venivamo spaventati da suoni e racconti horror. E ogni volta alle grida di spavento seguivano le nostre risate liberatorie e felici. Verso la fine del percorso ci arrivava tra capo e collo un colpo di scopa, quello della strega-fratello che aspettava impaziente e appiattito alla parete del corridoio. Ne chiedemmo replica le sere seguenti tanto ci eravamo divertiti, fino a quando i miei fratelli dopo la breve vacanza ritornarono in collegio e ciò mi procurò una certa tristezza, consolata dai due che rimanevano a casa.

Vabbè! Poi c’era il gioco delle bande, tipo I ragazzi della via Pal, in cui riuscivo sempre ad infilarmi. Nella parte più alta della collina c’era una banda che si scontrava sempre con quella dei miei fratelli, ogni tanto qualcuno veniva trovato da solo, quindi fatto prigioniero e riscattato attraverso pegni spesso umilianti. Io per un po’ me ne stavo zitta per poter restare nella banda, ma poi quando esageravano in crudeltà me ne uscivo protestando e puntualmente venivo sbattuta fuori dal covo. 🙂

Poi ci costruivamo gli aquiloni, che era una fortuna se volavano 🙂 …e il walkie-talkie con il filo costruito con i rotoli di cartone della carta igienica? Fantastico!

Con questi giochi ho imparato a socializzare, a condividere, a controllare e razionalizzare le mie paure, ad usare l’intuito, la fantasia, ad essere felice nella semplicità e a ridere davvero tanto. Ci accontentavamo con poco e spesso i nostri desideri rimanevano tali, ma eravamo contenti nonostante gli anni della crisi economica, dell’austerity, degli scioperi degli operai; anche mio padre rischiò di perdere il lavoro mentre mio fratello più grande non percepiva lo stipendio perché era militare di leva.
Furono tempi molto difficili ma vennero superati e portarono un grande cambiamento sociale perché ci fu la consapevolezza di quale potere rappresenti chi controlla le fonti energetiche, di quanto queste non siano infinite e dell’importanza di salvaguardare l’ambiente e di trovare fonti alternative che oggi si riconoscono in quelle pulite, mirate a sfruttare i fenomeni naturali e quindi non esauribili.

Leda

I giochi di una volta

 

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