Molestie, omertà e la sessualità negata

Avevo 9 anni e amavo molto stare fuori casa a giocare, non ne avevo mai abbastanza.
Quel giorno ero giù in cortile con mio fratello due anni più piccolo di me, e avevo il compito di vigilare su di lui. Per cui quando imprudentemente salì sul traballante barile capovolto lasciato lì ad asciugare, esibendosi in un insulso balletto, cercai di convincerlo a scendere. Non ubbidiva mai, così sfinita lo strattonai per i pantaloni e gli intimai di scendere… solo che, tirando, i pantaloni e le mutande gli scesero giù, l’elastico aveva ceduto. Non feci neanche in tempo a realizzare ciò che era accaduto che sentii mia madre dall’alto della terrazza darmi della svergognata e rimproverarmi duramente. Io sarei volentieri sprofondata sottoterra, oltre all’imbarazzo ero confusa e al contempo adirata con mio fratello. Era evidente che mia madre aveva visto solo la parte finale della scena e aveva equivocato; rendendosi conto troppo tardi di avere forse esagerato, smise di botto di parlare. Ma davvero mia madre poteva pensare una cosa simile di me? Che io avessi una curiosità così morbosa??

Avevo 12 anni e spesso andavo a casa di una delle due mie migliori amiche d’infanzia. Cosa inspiegabile per mia madre.
Mi raccontava spesso che quando la mia amica con la sua famiglia si trasferì lì vicino e ci incontrammo per la prima volta, entrambe piccoline, lei d’impulso mi graffiò il viso.
Quando in seconda elementare venne bocciata e ripeté l’anno, divenne la mia compagna di banco. Aveva l’abitudine di portare a scuola l’astuccio della manicure e altre cose prettamente femminili, e quando la maestra la scopriva a giocarci diceva sempre che le aveva trovate nella mia cartella, così puntualmente in castigo ci finivo io. Finché la maestra, esasperata, volle parlare con mia madre e si scoprì la verità.
Ma io non ricordavo proprio nulla di tutto questo e le ero molto affezionata. Passavamo insieme i pomeriggi d’estate ad ascoltare i 45 giri dal mangiadischi di color arancione di sua madre. Il nostro preferito era Claudio Baglioni, lei non si stancava mai di ascoltare “Questo piccolo grande amore”, io invece dopo un po’ preferivo ascoltare il lato B “Porta Portese”, mi metteva allegria.

Qualche settimana prima mi aveva raccontato che da alcuni mesi era “diventata signorina”, e dandosi una certa importanza mi aveva istruito su ciò che mi sarebbe accaduto con l’arrivo delle mestruazioni. A quei tempi difficilmente una madre avrebbe affrontato con una figlia un argomento del genere, così succedeva spesso che erano le amiche a supplire a questo compito. Veramente a scuola mi avevano dato un libricino che spiegava in modo semplicistico gli organi genitali e l’atto sessuale, ma a quel tempo non era una mia curiosità, così lo guardai con interesse ma non lo tenni in considerazione più di tanto.

Quel pomeriggio quando andai da lei, e questo me lo ricordo bene, la porta era insolitamente chiusa, sentii dei bisbiglii, la stanza era in penombra ma non ci feci caso più di tanto. D’inverno le giornate erano corte e c’era l’austerity per cui le luci si accendevano solo quando faceva quasi buio. Inaspettatamente trovai con lei suo padre, di rado lo incontravo e sempre di sfuggita, di solito lavorava fino a tardi e per me era quasi uno sconosciuto. Mi salutò e m’invitò leziosamente a sedere accanto a loro sul letto, lui stava nel mezzo e disse che eravamo diventate proprio carine, pareva gentile… Poi ad un tratto cominciò a toccarmi, io non capivo… d’istinto allontanai la sua mano ma mi toccava con l’altra. La cosa che mi lasciò esterrefatta furono le parole della mia amica: «Non aver paura, non ti fa male…» disse. Ero confusa, mio padre e gli adulti con cui ero a contatto non avevano mai agito in quel modo, sentivo che non era una cosa giusta. Mi infastidiva parecchio quel profanare la mia intimità di ragazzina da parte di un adulto che sapeva bene quel che stava facendo.
Mi alzai dal letto piuttosto stizzita, accesi la luce e dissi alla mia amica che dovevo andare a casa. Speravo venisse con me. Suo padre fece pure qualche spudorato tentativo per convincermi a restare. Ma me ne andai.
Ero molto turbata ma non ne feci parola con alcuno, figurarsi se me ne uscivo con una cosa del genere! Nessuno mi avrebbe creduto! Un bravo padre di famiglia… lavoratore indefesso… marito fedele (seee…) bravo cittadino… contro il dire di una sbarbatella che non sa nemmeno quello che dice.
Ecco il quadro che ne sarebbe uscito!
Per cui me ne stetti zitta e dissi alla mia amica che era meglio venisse lei da me. Ma a differenza sua io non avevo una camera mia, la condividevo con mio fratello più piccolo ed eravamo continuamente disturbate, e poi a casa mia faceva un po’ freddo, c’era la stufa e non i termosifoni come a casa sua. Così ripresi io ad andare da lei, ma cambiai le mie abitudini: ci andavo meno di frequente e in giorni diversi, mi assicuravo sempre non ci fosse l’auto di suo padre parcheggiata da qualche parte, suonavo alla porta del piano superiore che dava direttamente sul cortile anziché accedere dalla scala interna del garage, come ero solita fare. Insomma le pensai tutte per salvaguardare la mia incolumità perché non volevo rinunciare alla nostra amicizia, ma non mi sentivo più tranquilla.

Ero in pensiero per la mia amica, sembrava accettare tutto come fosse normale… Con difficoltà tentai di parlare con lei di questa cosa quando alcuni mesi più tardi trovammo lungo la strada, abbandonata tra l’erba, una rivista pornografica tutta spiegazzata, e capii dai suoi discorsi che sua madre sapeva! Questa omertà, per lei equivaleva a considerare il fatto che suo padre abusasse di lei come una cosa normale.
Io d’altro canto diventai sospettosa, più volte mi chiesi se anche mio padre, una volta “diventata signorina”, avrebbe agito così e smisi di accucciami accanto a lui la mattina presto, quando mia madre con tre brevi tocchi sulla spalla mi avvisava che si stava alzando e mi cedeva il posto, sapendo quanto sia io che mio padre adoravamo quel momento.

Avevo 13 anni, era giugno e il primo di ottobre avrei cominciato il mio ultimo anno di scuola media, per cui mia madre voleva accertarsi che fossi sicura della scelta che mi aspettava: continuare la scuola o andare a lavorare. Così prese accordi con con un suo conoscente e nei mesi di luglio e agosto ebbi modo di fare un po’ di pratica in un negozio di abbigliamento e articoli per la casa, così da tastare con mano che cosa significava lavorare.
Fui accolta piuttosto calorosamente dai commessi (poi capii il perchè 😏) e iniziai subito, prendendo confidenza con l’aspirapolvere e i vari attrezzi per la pulizia: quello sarebbe stato il mio compito (ecco, appunto!).
C’era un ragazzo simpatico, scherzava sempre, aveva sui vent’anni ed era l’ultimo assunto; mi aiutò soltanto la prima settimana e mi disse che sarei diventata la sua mascotte preferita, tanto era felice di essersi liberato di quell’incombenza (ecco appunto!).
Manco a dirlo il negozio era immenso! Per quel poco tempo che mi restava, andavo ai piani a riordinare gli abiti a seconda della taglia. Quelli che mi piacevano di più erano quelli da sera, lunghi fino ai piedi, pieni di applicazioni e strass; uno in particolare era il mio preferito: in tinta avorio, di cotone garzato (un po’ troppo trasparente a dire il vero ma andava portato con una sottogonna) con dei bellissimi fiori giallo pallido, stilizzati, ricamati a mano… bellissimo! Mi faceva sognare!
Tra gli abiti corti invece ce n’era uno con uno sfondo giallino pastello con dei fiorellini variopinti, mi ricordava tanto la primavera, la mia stagione preferita. Quando fu acquistato mi dispiacque un po’ non poterlo più vedere.
Nel settore giovane c’era poco o niente, qualche jeans firmato che costava un occhio, di marche che non conoscevo. A quei tempi andavano molto i Levi’s, i Wrangler, ma io portavo i Roy Roger’s, molto più economici e vestivano molto meglio perchè il giro vita era decisamente meno basso e la linea più unisex rispetto le altre marche. Li trovavo in un banco al mercato, da nuovi erano duri come baccalà, avevano l’odore della canapa ed erano di un blu omogeneo, ma diventavano fighi solo quando consumandosi risultavano morbidi e soprattutto di un celeste disomogeneo che li rendeva unici, perchè si scolorivano in modo diverso a seconda degli sfregamenti che subivano.
Mi ricordo di un tipo a cui venne la brillante idea di consumarli nei “punti giusti” con la carta vetrata! Tutta la compagnia a ridere a crepapelle..! Da bravo megalomane qual era, aveva così insistito nella zona dei genitali che ci rotolavamo per terra dalle risate!
Tutto sommato in quel negozio mi trovai bene con i commessi, con il proprietario un po’ meno. Ogni volta che mi trovavo a tu per tu con lui mi martellava continuamente con la frase “te devi farte gatta!” nel senso che dovevo diventare astuta e abile nel convincere le clienti. Ben presto capii che io non ero fatta per quel mestiere, o perlomeno, non per la filosofia praticata da chi lavorava lì da più tempo. Pur di vendere rifilavano abiti che non si adattavano bene allo stile o alla corporatura delle clienti, ma si guardavano bene dal dirlo, a volte rifilavano abiti da lungo tempo invenduti spacciandoli per essere all’ultima moda. Io avrei optato più per la sincerità.

Dal quarto piano del negozio si accedeva alla soffitta dove era stata ricavata una piccola stanza bianca, luminosa, accogliente: la stanza delle sarte, la mia preferita. Sembrava un piccolo regno delle fate 😊 tanto era accogliente. Mi ricordo che c’era un vecchio stiramaniche in legno sotto alla cui base c’erano incisi, in una lunga fila, tutti i nomi di chi aveva lavorato lì. Fui sorpresa di trovare anche il nome di un famoso calciatore della Lanerossi Vicenza, un idolo per noi ragazze. Alla fine di quell’estate aggiunsi anche il mio nome.
Sapevo cucire, così ogni tanto andavo a trovare le sarte e loro erano felici di avere qualcuno di nuovo a cui raccontare i loro divertenti aneddoti, e con la scusa di affidarmi qualche lavoretto mi trattenevano lì.
E fu lì che mi rifugiai un giorno.
Il più anziano dei commessi aveva quasi sessant’anni, molto distinto e serio nel suo lavoro, quel giorno mi disse che appena fossi stata libera dovevo andare al quarto piano dove c’era il magazzino, ripulire un po’ dalla polvere e rimettere in ordine le cose in giacenza.
A illuminare quello stanzone era la luce dell’abbaino, c’erano: tappeti, scatole di tovaglie, lenzuola, rotoli di stoffa di tutti i generi, asciugamani, articoli vari che potevano servire in una casa. Mi piaceva stare lì da sola a vedere tutte queste cose preziose, a dare loro un senso di ordine anche in base al colore, alla forma…
Quel giorno ero lì e venne a controllare il mio lavoro, sembrava soddisfatto anche se trovò qualcosa da dire sui tappeti, dovevo metterli un po’ meglio uno sopra l’altro. Beh, veramente non li avevo nemmeno toccati, era evidente che per la loro grandezza occorrevano quattro braccia. Mi si avvicinò e cominciò a toccarmi il seno e poi le parti intime. Il mio corpo era quello di un’adolescente esile ma già formato e questa persona aveva una certa aggressività, una smania che il papà della mia amica a confronto, era un dilettante. Mi fece davvero schifo e appena riuscii a liberarmi dalla sua stretta scappai nell’ascensore. Mentre scendevo, scattò il campanello che avvertiva che al pianoterra c’era una cliente in attesa di un commesso, all’improvviso l’ascensore si aprì al secondo piano e mi trovai davanti gli altri commessi. Quello giovane vedendomi strana, interpretò male e mi disse: «Ahhh! ti stavi nascondendo eh?» come se io avessi voluto evitare di rispondere alla chiamata… questo mettere in dubbio la mia onestà e correttezza mi umiliò ulteriormente.
Anche in quel caso non ne parlai con nessuno finchè non successe una seconda volta. Fu ancora più aggressivo, avvertii il pericolo, la volta successiva non mi avrebbe lasciato andare, così piombai dalle sarte che vedendomi sconvolta mi chiesero che cosa fosse successo. Spiattellai tutto e con mia sorpresa dissero: «Ecco! È accaduto di nuovo, è un vizietto che ha!». Mi rassicurarono e mi dissero di rimanere lì mentre la più anziana scendeva a parlare con il proprietario.
Il ragazzo giovane, venuto a conoscenza dei fatti capì perchè quel giorno in ascensore ero così strana, mi fece le sue scuse e mi fu affiancato per tutto il resto del tempo che lavorai lì.
Al “maniaco sessuale”, così venivano definiti a quei tempi i tipi come lui, fu proibito di salire ai piani superiori e gli fu ordinato di mantenere le distanze da me. Molti anni dopo seppi che si spinse a mettere le mani addosso a una cliente, il suo vizio diventò di dominio pubblico e gli costò lavoro e famiglia.

A distanza di molti anni, ormai adulta, raccontai a mia madre ciò che successe con il padre della mia amica e lei mi confidò che pure a lei tentò di mettere le mani addosso, e la moglie, come la figlia, sdrammatizzò il fatto come se fosse del tutto naturale che ciò accadesse.
È proprio un aspetto radicato nella nostra cultura quello di considerare la donna un oggetto sessuale e il fatto che ci sia sempre qualcuno che si impegni a giustificare atti simili è ancor più ignobile. Ho sentito spesso affermare che l’uomo è cacciatore (o meglio un predatore) che ha un naturale impulso che deve trovare soddisfazione… tutte balle!

Ogni essere umano ha una sua dignità e va rispettata. È importante vedere, è importante ascoltare, è importante parlare, non si devono accettare e men che meno giustificare questi atti disumani.

Leda


Donna – Mia Martini (1989)

 

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