La chiamata di marzo è una tradizione veneta: la sera dell’ultimo giorno di febbraio è d’uso andare per le vie del paese battendo sui “bandoti” (bidoni) per chiamare marzo perché ponga fine all’inverno.
Un buon auspicio nell’attesa del risveglio della natura segnata dall’arrivo della primavera.
Una tradizione che sembrava andata persa, così intorno ai primi anni 80 del secolo scorso con alcuni amici si tentò di ripescarla e farla rivivere.
La chiamata di marzo è una tradizione che ha radici lontane. Amavo molto ascoltare mia madre raccontare della notte in cui nel vicentino, sul cocuzzolo di ogni collina, ardeva un falò attorno al quale si riuniva la gente del luogo. Protagonisti erano le fanciulle e i giovanotti ancora da maritare.
Un sensale da ogni falò recitava con voce possente un rituale, attraverso cui trasmetteva ciò che i giovani volevano sapere l’uno dell’altro. Una forma di corteggiamento, al termine del quale i ragazzi celibi chiedevano la mano di una ragazza nubile.
Inutile dire che a volte la cosa prendeva una piega ilare, perché si tentava di condurre al matrimonio anche gli irriducibili e lì, mi raccontava mia madre, era uno spasso per tutti.
Quel primo anno il tentativo di recuperare questa tradizione non ebbe molto successo, molti parevano più che altro infastiditi dal rumore.
Negli anni successivi qualcuno riuscì a ritrovare il testo del rituale di corteggiamento, un testo antico e si volle riprovare. Ricordo ancora quella sera. Mentre stavo leggendo nella mia camera udii in lontananza un rullio di tamburi che s’avvicinava. Giunti nei pressi della mia casa il rumore era davvero assordante, un gruppo numeroso di maschi e femmine di tutte le età all’improvviso zittì. Incuriosita mi avvicinai alla finestra e li vidi davanti alla casa della ragazza più in là con l’età, ancora da maritare. Posti sotto a una finestra, ad alta voce qualcuno del gruppo cominciò a leggere il rituale di corteggiamento, che ben presto prese una piega ironica, un po’ satirica, accompagnata da risolini, battute, e pure qualche ovazione. Fu un gran divertimento per tutti, si creò aggregazione e per gli anziani fu un tuffo nostalgico nel passato.
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Filastrocca che serviva anche a scherzare sul tema dell’amore
“Fora febraro, che marso xe coà.
Se nol xe smarso ‘l se smarsirà.
Chi xe par moroso?
El Moro Munaro che l’è on bel toso.
Chi xela par morosa?
La Teresa Barba che la xe na bela tosa
Cossa gai par dote?
Do panoce.
Cossa gai sui òci?”
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LA CHIAMATA DI MARZO
Recoaro Terme
“Con i vestiti de ‘stiani,
campanassi e cioche,
sece e bandoti, snatare e corni”
sfileremo per le vie del centro per rivivere
tutti insieme un’antica tradizione…
Un gioioso momento di riscoperta del passato!
La Chiamata di Marzo è una delle più antiche e caratteristiche manifestazioni della tradizione e del folclore di Recoaro Terme, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Da varie attestazioni si sa che la festa era ancora celebrata con grande entusiasmo e partecipazione nell’Ottocento e fino agli anni ’20 del Novecento, per poi via via declinare nel periodo fra le due guerre mondiali.
A partire dal 1979 la Chiamata di Marzo è tornata a vivere nell’antico e colorito sfondo di festa che tanti anni fa la caratterizzava, in sfilata centinaia di persone in costume e carri allegorici allestiti nel rispetto dell’antica tradizione locale. Uno straordinario successo della prima edizione che si è poi ripetuta con ancora maggiore risonanza a scadenza biennale negli anni successivi ogni ultima domenica di febbraio.
Era la manifestazione spontanea della gioia che invadeva gli animi della gente di montagna, costretta a restare chiusa nella case e nelle stalle per quattro o cinque mesi, quando il primo tepore primaverile scioglieva il ghiaccio che d’inverno interrompeva i rapporti e le normali comunicazioni sia fra le contrade che con il centro del paese. Verso l’imbrunire, dopo essersi radunati a frotte nelle loro contrade, centinaia di pastori, mandriani, contadini, e le loro famiglie scendevano in paese, abbigliati con fogge e costumi stravaganti, in corteo compatto tra un frastuono indiavolato.
Ornamenti fatti di rami e fronde, abiti vecchi dai colori vari e vivaci, stelle alpine sul cappello alla montanara costituivano l’abbigliamento maschile, mentre le contadinelle e le montanare indossavano gli abiti migliori, adorne di trine, merletti e dei primi fiori. E in mezzo al grande, allegro corteo non potevano mancare gli animali: somarelli riccamente adornati e infiorati, buoi, capre e perfino conigli e galline, che insieme agli uomini avevano condiviso i lunghi giorni dell’isolamento invernale. Tutti si ritrovavano nella piazza con i propri attrezzi di lavoro, i propri armenti e con ogni possibile arnese trasportabile.
Alla testa della folla sfilavano per primi i cacciatori, armati di vecchi archibugi con i quali più tardi, mentre si intrecciavano le danze, salutavano a salve l’arrivo di marzo. Il corno, il “rècubele” e le “natare“ completavano il gaio frastuono, mentre i bambini agitavano campanelli (le “ciochète”) e le campane suonavano a festa. I gruppi intonavano le “cante” e qualcuno si esibiva in giochi di abilità e acrobazia. Dopo il tramonto veniva acceso il falò sul quale bruciava “l’inverno”, rappresentato da una sagoma di paglia.
Le probabili origini della festa sono assai remote. Fin dagli antichi Greci sappiamo che si celebrava con feste e con canti la nascita di Venere, che cadeva appunto nel mese di marzo: come dire il sorgere dell’amore, il risveglio dell’uomo e della natura dalle cupe ombre in cui li aveva avvolti l’inverno.
Per i Romani le Calende di Marzo segnavano addirittura l’inizio dell’anno e appunto in marzo erano tenute le grandi assemblee generali.
Il fatto che questa tradizione sia passata di generazione in generazione, di popolo in popolo, riuscendo in qualche modo a sopravvivere fino ai nostri giorni, è testimonianza di quanto radicata, spontanea ed intimamente sentita sia l’usanza di “Chiamare Marzo” nella storia della gente recoarese, anche in tempi in cui tutto o quasi tutto ciò che ci circonda tende a cancellare ogni traccia della nostra identità.
A marso ogni mato và descalso.
Marso suto e april bagnà,
beato el contadin ch’el ga seminà.
A proposito di matti… rivedendo questo post mi è venuto in mente di quel signore, quel tale che da ragazzini trovavamo sempre appostato a quel palo sul ciglio della strada a sinistra, quella che porta da Valdagno a Recoaro Terme. Nel periodo estivo, ogni volta che si andava in auto a trovare nostra zia, si attendeva con ansia di vederlo sbucare oltre la curva, ancora lì ad aspettare, e chiedevamo per l’ennesima volta a nostra madre di raccontarci la sua storia, che un po’ era diventata anche nostra:
«Pare che un giorno da ragazzo egli avesse appuntamento lì, in quel preciso posto, con la sua fidanzata, ma ella mai si presentò e sparì, non la si vide più. Allora ogni anno, nello stesso periodo, nello stesso posto, per più giorni di seguito egli si reca lì e rimane ad aspettare, sperando che lei un giorno possa ritornare…”
In quanto ragazzini inesperti di faccende d’amore ridevamo del fatto che uno spendesse lì il suo tempo, ad aspettare da mane a sera chi magari non sarebbe più potuta tornare. Ma in fondo in fondo ci speravamo pure noi, almeno per colui verso il quale provavamo una certa ammirazione, per una tale dedizione, per l’aver fede nelle proprie convinzioni… non è poi così comune…
Quell’estate, quella in cui non lo rivedemmo più, rimanemmo in silenzio, a lungo, a pensare…
forse che si aveva sbagliato curva…?
forse l’era un po’ più avanti…?
forse un po’ più indietro e c’era sfuggito…?
forse… e mi venne un po’ il magone
del venir meno…
il testimone
di quel grande amore.
Non lo vedemmo più.
Leda