Questo libro mi è piaciuto tantissimo, l’ho voluto leggere con molta attenzione e mi sono presa il tempo necessario.
Diario di scuola
di Daniel Pennac
Traduttore: Mélaouah Y.
Editore: Feltrinelli, 2008
Collana: I narratori
Diario di scuola affronta il grande tema della scuola dal punto di vista degli alunni. In verità dicendo “alunni” si dice qualcosa di troppo vago: qui è in gioco il punto di vista dei “somari”, di quelli che vanno male a scuola. Pennac, ex somaro lui stesso, studia questa figura popolare e ampiamente diffusa dandogli nobiltà, restituendogli anche il peso d’angoscia e di dolore che gli appartiene. Ma Diario di scuola è anche il racconto della sua esperienza di insegnante: come dire dal banco alla cattedra e ritorno. Il libro mescola ricordi autobiografici e riflessioni sulla pedagogia, sulle universali disfunzioni dell’istituto scolastico, sul ruolo della famiglia. E da questo rovistare nel “mal di scuola”, che attraversa con vitalissima continuità i vagabondaggi narrativi di Pennac, vediamo anche spuntare una non mai sedata sete di sapere e d’imparare che contrariamente ai più triti luoghi comuni, anima – secondo Pennac – i giovani di oggi come quelli di ieri.
Con la solita verve, l’autore della saga dei Malaussène movimenta riflessioni e affondi teorici con episodi buffi o toccanti, e colloca la nozione di amore, così ferocemente avversata, al centro della relazione pedagogica.
Commento: Curioso come Pennac nonostante faccia parte di una generazione ben precisa, usi con tanta scioltezza e in modo corretto il linguaggio dei giovani d’oggi senza scimmiottarli ma quasi fosse uno di loro. Mi ha incuriosito sapere la sua età perchè descrive situazioni che anch’io ho vissuto nella mia infanzia come il passaggio degli abiti usati tra fratelli e il doversi guadagnare tutto, e continuare gli studi non era per nulla scontato ma lo si doveva conquistare e anche con molti sacrifici.
L’insegnante di cui parla Pennac è una perla in mezzo a un deserto, ho avuto la fortuna di incontrarne qualcuno di questi prof, sia nella mia esperienza scolastica che in quella dei miei figli, e sono dell’opinione che l’insegnamento non è per tutti ma occorre una dote personale di sensibilità, passione e amore che molto spesso non riscontro negli insegnanti in genere, anzi spesso li vedo demotivati e rassegnati.
Un insegnante che ama la sua materia e la vive come una parte di sè per forza di cose ti trasmette lo stesso amore, ti contagia e ti fa stupire di te stesso e scoprire delle capacità che non pensavi di avere.
So che questo libro è stato letto da molti docenti, e da genitore in effetti ho riscontrato alcuni concetti di Pennac applicati nel metodo di insegnamento, ma concordo con la sua affermazione che: per l’insegnante è un grande handicap non riuscire a immaginarsi la condizione di colui che ignora tutto ciò che loro sanno.
Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennacchioni è uno scrittore francese. Le difficoltà che incontrò negli anni di scuola erano dovute alla dislessia, un disturbo specifico della lettura e della scrittura, legato alla difficoltà di separare le singole parole da gruppi di parole e i fonemi (la più piccola unità di suono nella parola) in ciascuna parola.
Diario di scuola è anche in formato audiolibro, la voce narrante è di Giuseppe Battiston, attore teatrale e cinematografico italiano.
Leda
Cito alcuni passi del libro:
«In ogni caso, sì, la paura fu proprio la costante di tutta la mia carriera scolastica: il suo chiavistello.
E quando divenni insegnante la mia priorità fu alleviare la paura dei miei allievi peggiori per far saltare quel chiavistello, affinché il sapere avesse una possibilità di passare».
Insomma, mio padre così com’è, ironico e saggio, desideroso di chiacchierare con me, a rispettosa distanza, della vita che continuava.
Ho sotto gli occhi la busta della lettera.
Solo oggi noto un particolare.
Non si era limitato a scrivere il mio nome, il nome della scuola, quello della via e della città…
Aveva aggiunto la dicitura: Professore
Professor Daniel Pennacchioni
Scuola Media…
Professore…
Con la sua grafia così precisa.
Mi ci è voluta una vita intera per sentire quell’urlo di gioia
– e quel sospiro di sollievo.
In ogni caso non diventerò mai come te, vecchia pazza!
Non sarò mai un prof, ragno invischiato nella sua stessa tela, aguzzino inchiodato alla cattedra fino alla fine dei suoi giorni. Mai ! Noi studenti passiamo, voi invece restate ! Noi siamo liberi e voi vi siete beccati l’ergastolo. A scuola noi andiamo male, ma almeno andiamo da qualche parte! L’aula scolastica non sarà mai il misero recinto della nostra vita!
Disprezzo per disprezzo, mi aggrappavo a questa pessima consolazione: noi passiamo, i prof restano; è una conversazione abituale tra quelli dell’ultimo banco. I somari si nutrono di parole.
La cosa che ci insegna il futuro quando diventa passato,
è che le cose non vanno mai come prevediamo.
Difficile spiegarlo, ma spesso basta uno sguardo, una frase benevola, la parola di un adulto, fiduciosa, chiara ed equilibrata per dissolvere quei magoni, alleviare quegli animi, collocarli in un presente indicativo.
Naturalmente il beneficio sarà provvisorio, la cipolla si ricomporrà all’uscita e forse domani bisognerà ricominciare daccapo.
Ma insegnare è proprio questo: ricominciare fino a scomparire come professori.
Se non riusciamo a collocare i nostri studenti nell’indicativo presente della nostra lezione, se il nostro sapere e il piacere di servirsene non attecchiscono su quei ragazzini e quelle ragazzine, la loro esistenza vacillerà sopra vuoti infiniti.
Certo, non saremo gli unici a scavare quei cunicoli o a non riuscire a colmarli, ma quelle donne e quegli uomini avranno comunque passato uno o più anni della loro giovinezza seduti di fronte a noi. E non è poco un anno di scuola andato in malora: è l’eternità in un barattolo.
Nella mia famiglia avevo soprattutto guardato gli altri leggere: mio padre che fumava la pipa nella sua poltrona, sotto il cono di luce di una lampada, passandosi distrattamente l’anulare nella riga impeccabile dei capelli, con un libro aperto sulle ginocchia accavallate; Bernard, in camera nostra, steso sul fianco, ginocchia piegate, la mano destra a reggergli la testa… C’era del benessere, in quelle posture. In fondo, è stata la fisiologia del lettore a spingermi a leggere. Forse all’inizio ho letto solo per poter riprodurre quelle pose ed esplorarne altre. Leggendo, mi sono fisicamente collocato in una felicità che dura ancora.
Imparare a memoria? Nell’epoca in cui la memoria si misura in giga!
Tutto questo è vero, ma l’essenziale è altrove.
Imparando a memoria, non supplisco a nulla, aggiungo a tutto.
La memoria, qui, entra nel cuore della lingua.Tuffarsi nella lingua, è questo che conta.
E se tuffandomi bevo, poi mi rituffo lo stesso.
Portatore di una tradizione scritta che per merito suo tornerà a essere orale, forse li reciterà a qualcun altro, per condividerli, per il gioco della seduzione, o per fare il saccente, è un rischio da correre. Così facendo si ricongiungerà con l’epoca che precede la scrittura, quando la sopravvivenza del pensiero dipendeva solo dalla nostra voce. Se lei la chiama regressione, io lo chiamo ricongiungimento! Il sapere è innanzitutto carnale. Le nostre orecchie e i nostri occhi lo captano, la nostra bocca lo trasmette, Certo, ci viene dai libri, ma i libri escono da noi. Fa rumore, un pensiero, e il piacere di leggere è un retaggio del bisogno di dire.
«Che cos’è questo lo?»
«…»
«…»
«È un pronome, prof!»
«Bravo. Che tipo di pronome?»
«Un pronome personale!»
«Non ci siamo.»
«Un pronome complemento!»
Ecco. Benissimo: Giusto. Adesso lasciamo la classe e torniamo a noi, analizziamo questo pronome complemento fra adulti. Con cautela. Sono parole pericolose, i pronomi complemento, mine antiuomo sepolte sotto il significato apparente e che ti esplodono in faccia se non le disinneschi. Questo lo, per esempio… Quante volte ci siamo chiesti, pronunciando l’accusa “Lo fai apposta” che cosa esprimesse nel caso specifico il pronome complemento lo? Apposta a fare cosa? L’ultima stupidaggine? No, il tono con cui abbiamo lanciato quest’accusa (poichè c’è anche il tono!) lascia chiaramente intendere che il colpevole lo fa sempre apposta, che ogni volta lo fa apposta, che quest’ultima stupidaggine è la conferma della sua ostinazione.
«Che cosa porti ai piedi?»
«Ai piedi? Ho le mie N, prof!» (Qui il nome della marca)
«Le tue cosa?»
«Le mie N, ho le mie N!»
«E che cosa sono, le tue N?»
«In che senso, cosa sono? Sono le mie N!»
«Come oggetto, voglio dire, che cosa sono come oggetto?»
«Sono le mie N!»
….
«E tu Samir, che cosa hai addosso?»
Stessa risposta immediata:
«È il mio L, prof!»
A questo punto ho mimato un’agonia atroce, come se Samir mi avesse avvelenato e io morissi in diretta davanti a lui, quando un’altra voce ha esclamato ridendo:
«No, no, è un golf! Sù rimanga con noi, è un golf, il suo L, è un golf!».
Resurrezione:
«Sì, è il suo golf, e anche se golf è una parola di origine inglese è sempre meglio di una marca! Mia madre avrebbe detto il suo pullover e mia nonna la sua casacchina, vecchia parola ‘casacchina’, ma sempre meglio di una marca, perchè sono le marche, Maximilien, che vi fanno uscire di testa, non i professori! Vi fanno uscire di testa, le vostre marche: le mie N, il mio L, la mia T, il mio X, le mie Y! Vi fanno uscire di testa e intanto vi rubano i soldi, vi rubano le parole, vi rubano anche il corpo, come un’uniforme, fanno di voi delle pubblicità viventi, come i manichini di plastica dei negozi!»
[..]
Seguì una discussione approfondita sui concetti di costo e di valore, non i valori venali, ma gli altri, i famosi valori, quelli che si dice loro abbiano perso…
E ci siamo lasciati con una piccola manifestazione verbale: «Li-be-ra-te le parole! – Li-be-ra-te – le parole!» finchè tutti i loro oggetti familiari, scarpe, zaini, penne, maglioni, giacche a vento, lettori cd, auricolari, telefonini, occhiali, non ebbero perso la marca per ritrovare il proprio nome.
La quiete dell’aula di studio. Non si sente volare un dubbio. Ho sempre amato il silenzio della siesta e la calma dell’aula di studio. Spesso nella mia infanzia li associavo. Adoravo il riposo immeritato.
Non era soltanto il sapere che quei professori condividevano con noi, era il desiderio stesso del sapere! E ciò che mi comunicarono fu il piacere di trasmettere. Perciò andavamo alle loro lezioni affamati come lupi. Non direi che ci sentissimo amati da loro, ma di certo considerati (“massimo rispetto” è l’espressione che userebbero i ragazzi di oggi), considerazione che si manifestava fin nella correzione dei nostri compiti, dove i loro commenti erano sempre rivolti a ciascuno di noi individualmente.
di Daniel Pennac da “Diario di Scuola“