Capita di voler aggiungere qualcosa. Il cervello

Capita di voler aggiungere qualcosa a ciò che stai scrivendo, qualcosa che gira in testa da un po’, ma che non ci si è mai soffermati a fare, presi da altre cose più incombenti.

Allora decidi e cerchi informazioni su questa cosa, ma tutto ciò che trovi, ti rendi conto, manca del contenuto. Molte sono le descrizioni, ma niente che entri nel significato, che dia un’interpretazione, che ti permetta di comprendere e di farti un’opinione.
E allora pensi: chi meglio dell’ideatore può spiegarla? Così cerchi un’intervista e la prima che trovi è perfetta, proprio quello che cercavi, aggiunge il valore che mancava: racconta il perché, il per come e i vari risvolti della faccenda. Ne riporti un sunto che affianca la descrizione e citi l’intervista, non per “lecchinaggio”, come possono pensare i maligni, ma per semplice riconoscenza del valore e del servizio che è stato dato.

Personalmente non mi capita di essere gelosa o invidiosa del successo altrui, anzi, in genere mi fa molto piacere, soprattutto se è sudato e meritato. Se qualcuno apporta valore, credo sia giusto riconoscerlo ed esserne grati. La gratitudine. Parola pressoché sconosciuta nel nostro tempo, in cui “si tende a fare…sì certo… ma solo in cambio di…”

gratitùdine [dal lat. tardo gratitudo – dĭnis, der. di gratus «grato, riconoscente»] – Sentimento e disposizione d’animo che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare. È sinonimo di riconoscenza, ma può indicare un sentimento più intimo e cordiale.
(dal vocabolario Treccani)

Quando trovo qualche articolo interessante mi incuriosisce molto leggere i commenti, si impara parecchio. Se da un lato si può approfondire l’argomento, dall’altro si ha anche il senso di quello che siamo diventati, specie nei commenti ‘fuori luogo’. Se ognuno anziché perdere il proprio tempo a banalizzare il lavoro degli altri, a spettegolare e a malignare, credendosi privo di difetti, guardasse di più al proprio operato e cercasse di dare il meglio, certamente vivremmo in un mondo migliore.

«Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire a tuo fratello: permetti che ti tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, mentre tu non vedi la trave che è nel tuo?»

Dal Vangelo secondo Luca 6,39-42

Molte persone si dimenticano il “Grazie” per ciò che ricevono. La gratuità di un’azione, di un oggetto, di una funzione porta spesso a pensare che sia dovuta, che spetti di diritto, dimenticando che occorre riconoscerne il valore e soprattutto si ha il dovere di averne rispetto. Ma in una società come la nostra, fondata sul principio secondo cui tutto è merce, un qualcosa che non ha un prezzo, un costo anziché aumentarne il valore (come dovrebbe essere) lo riduce, lo squalifica.

Così, ad esempio, il lavoro domestico gratuito non è riconosciuto, finché non si assume qualcuno che lo compia, che va retribuito, allora assume valore; educare, poiché è un qualcosa di impalpabile, solo percepibile è considerato qualcosa di non indispensabile, e poi si finisce per “piangere sulle disgrazie” che ne conseguono, sul cosiddetto ‘latte versato’ senza pensare che si poteva fare qualcosa per prevenire tutto ciò.

Ma anche Prevenire è una parola che sta assumendo uno strano significato, perché è concepita come un togliere così che le cose non accadano: tolgo i pericoli così nessuno si fa male, impedisco ai figli di fare determinate esperienze così sto più tranquillo, e punisco così a nessuno viene in mente di provarci.
In realtà prevenire significa “vedere prima” gli effetti possibili e cercare di adottare in anticipo delle precauzioni, assumere delle strategie che non impediscano qualcosa, ma piuttosto che incentivino verso un comportamento alternativo e più costruttivo.

Ma la nostra è una società che delega, che accetta e vuole imbottirsi di farmaci piuttosto che affrontare e capire un problema; che prega Dio, o la fortuna, o il destino che doni loro la salute piuttosto che cercare di assumere una vita più sana; che rimane in attesa, sperando che altri compiano ciò che si potrebbe fare già nella propria vita per migliorare le cose. Una società all’impasse:

“mi penso par mi, e che i altri ‘i se rangia! (s’arrangino)”

Credo che uno dei grandi peccati del nostro tempo sia proprio l’accidia:

Accidia: torpore malinconico, indolenza, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene. Ma anche pigrizia intellettuale che ci lascia senza reazioni né pensieri davanti all’agitazione di un mondo che abbiamo rinunciato a capire.

Anzichè fare, si ambisce a comandare o delegare gli altri a fare; ma quel che è peggio è la pigrizia nei sentimenti: ci si aspetta molto ma in cambio si è disposti a dare poco, se non il minimo indispensabile. Così ci circondiamo di legami deboli, finti, di false amicizie, di rapporti di comodo che soddisfino quel determinato bisogno senza però dover assumere alcun impegno. E poi irrimediabilmente si finisce per sentirsi soli non avendo creato nulla di sostanza, ma tutto di apparenza e l’apparenza prima o poi svanisce, come la giovinezza e si rimane con ciò che resta… il nulla.

Come quello de La storia infinita, un film del 1984 diretto da Wolfgang Petersen, ispirato al romanzo omonimo di Michael Ende, il più costoso film di produzione tedesca. Ha avuto due séguiti:, La storia infinita 2 (1990) e La storia infinita 3 (1994).


È più facile dominare chi non crede in niente.
E questo è il modo più sicuro di conquistare il potere.


Una volta lessi un articolo sulle cellule del tessuto nervoso, che si sviluppa maggiormente in età giovanile proporzionalmente a quanto si è stati attivi dal punto di vista mentale, e che in età adulta si vive di rendita, nel senso che mano a mano che i neuroni muoiono si degenera fino alla vecchiaia. Ricordo che a metà degli anni Settanta, alla scuola superiore l’insegnante di anatomia ci spiegò che ancora poco si sapeva sul sistema nervoso e, a grandi linee, come funzionasse il cervello.

Un  dogma scientifico, che risale ai primi del Novecento, affermava che il cervello fosse immutabile, stabile e definitivo, ciò impedì lo sviluppo di altre conoscenze  e di  ulteriori studi che rimasero inascoltati per molti decenni. Si riteneva che la produzione delle cellule cerebrali, i neuroni, avvenisse durante la vita intrauterina terminando poco dopo la nascita e che questo bagaglio di neuroni, incapaci di riprodursi, si sarebbe ridotto progressivamente con l’età. Come premio di consolazione si identificava la vecchiaia con la saggezza, acquisita con il rafforzamento dei collegamenti tra neuroni (sinapsi). Soltanto verso l’ultima decade del secolo scorso con il moltiplicarsi degli studi si è giunti all’idea che il cervello è una struttura plastica, che evolve nel corso di tutta la vita, in modo diverso tra gli individui a seconda della quantità e della qualità degli stimoli ricevuti.

La funzione  dei neuroni è principalmente quella di ricevere gli stimoli raccolti alla periferia del corpo attraverso i recettori sensoriali (sistema nervoso periferico), piccole quantità di energia che vengono convertite in un impulso elettrico che i neuroni trasmettono al sistema nervoso centrale, formato dall’encefalo (cervello, tronco cerebrale e cervelletto) e midollo spinale, che quindi elabora una risposta adeguata. Tutto ciò permette in definitiva ad un organismo di relazionarsi con il proprio ambiente.
Accanto ai classici 5 sensi (vista, udito, tatto, gusto e odorato) esiste un sesto senso: la propriocezione (o cinestesia) attraverso questi recettori si percepisce e si riconosce la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli, anche senza il supporto della vista, ed è fondamentale nel complesso meccanismo di controllo del movimento.

Questa propriocezione è come se fosse gli occhi del corpo, il mondo in cui il corpo vede se stesso. E se scompare, come è successo a me, è come se il corpo fosse cieco. Il mio corpo non può ‘vedere’ se stesso se ha perso i suoi occhi, giusto? Così tocca a me guardarlo, essere i suoi occhi.

dal libro “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks, 1985.

Nel suo saggio il neurologo britannico Oliver Sacks al capitolo 3 “La disincarnata” descrive la perdita di questa capacità raccontando la storia di Christina.

Questo mi ha fatto venire in mente quando iniziai a fare Step in palestra, una ginnastica aerobica molto divertente, che mi piace tantissimo. Fu ideata nel 1989 da Gin Miller, ora molto diffusa nelle palestre, si esegue con l’utilizzo di una piattaforma detta appunto “step”, alta in genere 25 cm. A prima vista sembra un esercizio facile, quasi banale, in realtà richiede una coordinazione niente male, tra quello che si pensa e quello che si fa.
Prima di tutto occorre un certo controllo della postura per non perdere l’equilibrio e per “centrare” lo step, visto che durante l’esecuzione gli occhi sono puntati sull’istruttore che dà le istruzioni e contemporaneamente esegue i movimenti di fronte allo specchio, quindi bisogna prestare attenzione anche a questo particolare (lo specchio a volte inganna la mente tra destra e sinistra). Si segue un ritmo più o meno veloce dato dalla musica e una coreografia più o meno elaborata, in cui si ripetono i movimenti con  braccia e gambe come in una specie di marcia, intervallati da saltelli leggeri e molto armoniosi per passare da un movimento all’altro o per passare da un capo all’altro della piattaforma.

Quando si raggiunge un po’ di dimestichezza pare quasi un balletto ed è molto bello da eseguire e da vedere, dà soddisfazione e soprattutto ci si diverte moltissimo se eseguito in gruppo, ma si può fare anche da soli in casa, magari con l’ausilio di un dvd o un video apposito. È molto efficace per scaricare la tensione, non si sente la fatica perchè la mente è concentrata nella coordinazione e la musica ti dà un’energia e una carica incredibile; si suda molto e si acquista una certa elasticità e armonia nei movimenti, infine migliora l’equilibrio e il sistema cardiovascolare. A me personalmente ha aiutato molto a ritrovare la concentrazione di cui dopo aver avuto figli, mi accorsi, deficitavo un bel po’; all’inizio mi sentivo un po’ imbranata ma in breve tempo ho acquisito molta sicurezza.

Quello che del tessuto nervoso ancora non si conosce bene sono i meccanismi non del tutto chiari, delle funzioni psichiche ed intellettive degli esseri umani, quali la memoria, la conoscenza, la coscienza.

Più recentemente sono state prese in considerazione le cellule della glia, che assieme ai neuroni costituiscono il sistema nervoso, ma che per oltre un secolo sono state sottovalutate. Si pensa abbiano un ruolo nello smistare le informazioni ai fini dell’apprendimento.

L’origine della nostra intelligenza è forse uno degli aspetti del cervello che più ci affascina. Il cervello di Einstein, ad esempio, è stato studiato a fondo dagli scienziati di mezzo mondo alla ricerca del segreto della sua genialità. Negli anni ’80 del secolo scorso, una delle scoperte più eclatanti a riguardo fu che Einstein, a differenza delle persone comuni, non avesse più neuroni bensì più cellule della glia. (Quel genio del cervello)

Il cervello è come una rete sociale, dice il Prof. Ben-Jacob. I messaggi possono provenire dai neuroni, che utilizzano le sinapsi come sistema di trasporto, ma le gliali servono come moderatore generale, regolando quali messaggi vengono inviati e quando. Queste cellule possono velocizzare il trasferimento di informazioni, o rallentare l’attività se le sinapsi sono sempre iperattive. Questo rende le cellule gliali i guardiani dei nostri processi di apprendimento e memoria, egli osserva, orchestrando la trasmissione di informazioni per il funzionamento ottimale del cervello. (Cellule gliali molto più importanti di quanto si credeva).

 

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