I miei anni di scuola hanno visto periodi bui e periodi di luce, non sono mai stata particolarmente brillante dal punto di vista del rendimento, tranne che per quelle materie che mi emozionavano e mi appassionavano. Ricordo in modo vivido alcuni momenti che sono stati fondamentali per la mia crescita personale fin dalla scuola materna.
Lì, ho conosciuto suor Cecilia, una suora piuttosto giovane, di media altezza, leggermente rotondetta con due guance sempre colorate, come colorata era la sua anima. Le volevo un mondo di bene per la dolcezza e l’incoraggiamento che mi ha dato nel fare le cose.
Tutto il contrario di quell’odiosa suor Flores, quella alta, un po’ maschile, dal naso lungo eccessivamente sporgente, mi sa che una tipa così ce n’era una per ogni scuola… Era fin troppo severa, direi cattiva con noi bambini, mi sa che ci godeva un po’ a farci soffrire. Mi ricordo uno dei miei fratelli, che è sempre stato particolarmente vivace, quando raccontava di essere stato costretto a inginocchiarsi sopra i ceci davanti alla stufa o dietro la lavagna per punizione quando creava disturbo in classe, anche un colpo di tosse troppo forte poteva essere un pretesto, chissà che cosa le rodeva nell’anima per essere così.
Io quando la incontravo mi defilavo puntualmente nascondendomi dietro l’ampio abito nero di suor Cecilia, che cercava sempre di tranquillizzarla quando suor Flores si catapultava nella nostra classe, su tutte le furie per qualcosa che non le andava bene.
L’unica volta che mi risultò simpatica fu quel giorno che ci portò in classe, ma solo per farcelo vedere eh!, un magnifico castello in cartone, di quelli che si vedono nei libri di favole. Era a grandezza di bambino, azzurro, bellissimo…”Guardare e non toccare!” E noi morivamo dalla voglia di guardarci dentro, ma “nein!” non si poteva nemmeno sfiorare. L’aveva donato una famiglia ricca del posto, capitava qualche volta che ci fossero donazioni del genere fatte per noi bambini.
L’edificio fu costruito in soli due anni per volontà di un industriale della seta del luogo, il Comm. Giovanni Bonazzi dedicandolo alla memoria della figlia Ines deceduta in giovane età. È una bellissima villa dall’architettura tipicamente veneta, destinata ad ospitare un Giardino d’Infanzia secondo il metodo pedagogico di Fröbel.
Terminato nel 1928 andò a sostituire l’Asilo di Carità “Vittorio Emanuele II” e venne solennemente inaugurato l’anno successivo alla presenza del Principe Umberto di Savoia.
Erano imprenditori illuminati, capaci di far prosperare le loro aziende ma anche di contribuire allo sviluppo sociale e culturale del paese. Questo del Giardino d’Infanzia fu un ottimo esempio di scuola privata che forniva un servizio pubblico, poichè era destinata ad accogliere i figli provenienti dalle famiglie di operai e operaie, spesso numerose e povere, offrendo loro un ambiente sano e accogliente. Durante la Seconda guerra mondiale l’edificio fu occupato dai tedeschi; i profughi dell’alluvione del Polesine del 1951 vi trovarono porte e cuori aperti all’accoglienza, un tetto sotto cui ripararsi e il companatico preparato dalle suore dorotee.
All’asilo vo’ contenta
la maestra mi vuol ben,
lavorando, stando attenta
passan le ore in un balen.
So già dire le preghiere,
la ginnastica so far,
mi diverto con piacere
fino al dieci so contar…
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10!
Questa canzoncina se la ricorda ancora mia madre, la memoria dei nostri genitori è viva più che mai, forse perchè il loro era un tempo più rallentato. Più di ottantacinque anni fà, mia madre frequentava quello stesso Giardino d’Infanzia. Ancora conserva le foto in bianco e nero fatte in cortile, dove compaiono queste bambine con sguardi severi o imbronciati, per molte di loro la vita non era certo facile, con ampi colletti bianchi e rotondi che facevano pensare agli abiti delle monache, tutte con i cappelli cortissimi “alla maschietto” per contrastare le epidemie di pidocchi che a quel tempo erano molto frequenti. Il bello è che ancora sa riconoscere le sue compagne, di alcune si ricorda anche il nome ma per la maggior parte sono già morte. Mi racconta anche degli aneddoti, io lì, molti anni dopo, mi sono divertita un sacco.
In giardino di generazione in generazione facevamo gli stessi giochi: si facevano girotondi, si saltava la corda, si giocava a bandiera e all’uomo nero…
un bambino a turno, solo di fronte a tutto il gruppo gridava: «Chi ha paura dell’uomo nero?» E il gruppo rispondeva: «Io nooo! » e si scappava da tutte le parti mentre il bambino cercava di catturare più bambini che poteva. Si formava così un nuovo gruppetto che di fronte a quelli rimasti ripeteva la stessa scena finchè tutti venivano catturati.
Mi ricordo Pasquale, l’autista del pulmino, sul quale fin dal primo giorno fui determinata a salirci da sola come i miei fratelli, orgogliosa di poter iniziare una vita comunitaria.
Pasquale era una persona molto buona e birichina, si divertiva a passare per i corridoi con una lunga asta (quella che serviva per aprire le enormi alte finestre della villa) sulla cui sommità infilava la marionetta del diavoletto e lo faceva scorrere per tutta la lunghezza dell’alto lucernaio di cui ogni aula era fornita, per far entrare la luce che attraverso il corridoio proveniva dal giardino interno. Nel contempo si sentiva un forte vocione sinistro dire: “Ecco il diavoletto! Venuto a vedere chi fa il cattivo e a portarselo viaaa!…) ne seguiva un urlo corale, poi un totale inquietante silenzio seguito da un’esplosione di risate. Gli volevamo tutti bene a Pasquale.
A quei tempi si usava molto la strategia della paura, a volte un po’ troppo devo dire, ma eravamo così tanti che in qualche modo dovevano tenerci sotto controllo, allora mica si era liberi di essere se stessi come oggi!
A meno che, non si avesse suor Cecilia 😌
Mi ricordo anche il salone immenso che fungeva da refettorio, pur essendo spoglio sembrava un salone dei ricevimenti da quanto era ampio, si giocava di fantasia immaginando fastosi balli. In fondo vicino alle finestre c’erano dei lunghi tavoli di legno lineari, sulla cui superficie c’erano dei fori a distanza regolare dove molti anni prima venivano poste le ciotole del cibo perchè non si rovesciassero.
Ma tra noi bambini girava l’aneddoto che in quei buchi ci infilavano la testa dei bambini cattivi… non ho mai capito però come faceva a passarci visto che erano molto più piccoli! Me lo svelò mia madre la funzione di quei buchi, visto che anche lei era stata lì da bambina quando fu inaugurata la scuola, serba ancora delle fotografie in cui si vede l’intera classe con la suora superiora e tutte le ragazze con i capelli rasati o cortissimi per via dei pidocchi che in quegli anni infestavano le scuole.
In fondo al salone sulla sinistra c’era una bellissima ringhiera in ferro battuto lavorata con dei ghirigori, delimitava le scale che scendevano nelle cantine della villa, e quando noi bambini facevamo troppo chiasso all’improvviso da lì proveniva un rumore sinistro, metallico, come di un avvicinarsi di un qualcosa di non ben definito ma inquietante: “Ecco il barabecheee!” gridava una suora, era il leggendario mostro che nessuno aveva mai visto. Naturalmente in un nanosecondo si produceva un silenzio di tomba in cui non si sentiva neanche una mosca volare.
La cosa funzionò finchè suor Cecilia non ebbe la cattiva idea (si fà per dire…) di portarmi con sè un giorno che non stavo molto bene, voleva farmi scendere quelle scale perchè doveva andare a prendere qualcosa giù di sotto, ma io come un mulo puntai i piedi sul primo scalino e mi aggrappai alla ringhiera decisamente intenzionata e spaventata a non voler affrontare il barabeche. Quando suor Cecilia capì, con una delle sue risate argentine mi disse di non temere che era tutta un’invenzione per farci stare tutti zitti. Io mi fidavo di lei, per cui presi per buona la sua spiegazione e un po’ fiduciosa (ma non troppo), scesi le scale e mi fece vedere il bastone con cui si produceva quel rumore metallico, facendolo scorrere sulla parte della ringhiera che spariva dalla nostra vista. Mamma mia che sollievo! Solo che poi lo spifferai a tutti quelli che potevo, e la cosa non funzionò più come prima! 😅
Suor Cecilia è stata una figura estremamente importante per me. Ricordo un giorno di quell’ultimo anno di scuola materna in cui suor Cecilia ci avrebbe parlato della primavera che stava per arrivare. Prima dell’inizio della lezione la solita bambina era stata incaricata di disegnare dei soggetti primaverili sulla lavagna. Più volte le avevo offerto la mia collaborazione perchè mi piaceva disegnare, ma sembrava si fosse accaparrata in esclusiva quel compito perchè si era sempre rifiutata categoricamente di farmi partecipare.
Quel giorno avvicinandomi, vidi che sul libro c’erano delle violette da copiare, ho sempre amato molto le viole per il delicato profumo che emanano e sapevo disegnarle bene per cui mi offrii per l’ennesima volta di aiutarla e mi rispose con l’ennesimo, secco no! Volle il destino che in quel preciso momento passasse di lì proprio suor Cecilia, che udì tutto e senza una parola mi mise in mano il gessetto viola e mi sorrise. Posso assicurare che ci misi tutto il mio impegno per contraccambiare e rendere orgogliosa di me suor Cecilia!
Terminato l’ultimo anno di scuola materna ho fatto una fatica tremenda a trattenere le lacrime quando nel mese di giugno andai a salutarla per l’ultima volta, sarebbe partita per le missioni. Le portai un bellissimo mazzo di fiori raccolti nel nostro giardino, che avevo confezionato personalmente con l’aiuto di mia madre. Non riuscii a pronunciare che poche parole del discorso che mi aveva suggerito mia madre, ma bastò un abbraccio e un grosso bacio affettuoso che le stampai sulle gote sempre colorate, grata per tutto quello che mi aveva dato e che è rimasto con me.
Leda