Classe 1923 è un brano di Germano Bonaveri scritto e dedicato a Malagoli Agenore, nato nel 1923.
CLASSE 1923 – Germano Bonaveri (2005)
«Malagoli Agenore fu deportato alla fine del 1944 in un campo di concentramento polacco ed è sopravvissuto all’orrore. Anni fa mi mostrò una sua foto dopo la liberazione (era 35 chili) e mentre mi raccontava di quei mesi, gli chiesi cosa si provasse a ritrovare la libertà dopo quell’inferno. Non disse una parola, ma gli si velarono gli occhi».
Germano Bonaveri
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LA CLASSE VENTITRÉ
Ventitré,
cappel di ferro
preparati per la partenza.
Saluto il babbo
e la mia mamma
e la morosa che piangerà.
Se sarai buona,
o virtuosa
o mio piccolo tesor,
al mio ritorno
ti sposerò.
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I cappel di ferro erano gli elmetti che venivano consegnati ai soldati, così raccontano gli anziani che han vissuto la Seconda guerra mondiale, con amarezza e dolore. Pare si usasse cantare questa canzone per incoraggiare i coscritti in partenza, ma anche coloro che avrebbero atteso il loro ritorno. Il 10 giugno 1940 l’Italia era entrata in guerra a fianco della Germania nazista.
ADDESTRAMENTO MILITARE FASCISTA
Nel quadro dell’addestramento militare, il regime fascista aveva introdotto nel 1926 l’istruzione premilitare per i giovani a partire dagli 8 anni di età fino all’anno in cui venivano chiamati alle armi (21 anni), che si suddivideva in due periodi:
• il primo per i Balilla (dagli 8 ai 14 anni) gli Avanguardisti (dai 14 ai 18 anni) e le Piccole e le Giovani italiane di competenza dell’Opera Nazionale Balilla;
• il secondo dalla leva fascista (a 18 anni) fino alla effettiva chiamata alle armi (a 21 anni), addestramento di competenza della Milizia Volontaria.
Seguiva l’istruzione militare per i giovani dal 21° anno di età compiuta nelle file delle forze armate, fino al compimento della ferma al fine di diventare un soldato completo.
E infine l’istruzione postmilitare, il militare è in congedo ma a disposizione dello Stato per istruzione postmilitare e richiami.
Con la legge n. 2150 del 31 dicembre 1934 venne istituito ufficialmente l’addestramento militare fascista creando un sistema unico e obbligatorio, integrando le organizzazioni giovanili del regime (Opera Nazionale Balilla e Fasci Giovanili di Combattimento) e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Questa legge mirava a rendere inscindibili i ruoli di cittadino e soldato nello Stato fascista, strutturando la preparazione militare in tre fasi: pre-militare, militare e post-militare.
Non ebbero certo un trattamento morbido i giovani nati negli anni 1923, 1924 e 1925, giovani dai 18 ai 20 anni che nel 1943 la Repubblica sociale italiana (o Repubblica di Salò) chiamò alle armi per entrare nel nuovo esercito della Repubblica Sociale.
Il bando è apparso stamani sui quotidiani e comincia a vedersi nei manifesti affissi sui muri delle città. Non ha firma, ma è attribuito al maresciallo Graziani, ministro della difesa nazionale. Verrà chiamato “bando Graziani”. Con una minaccia mai apparsa in precedenza, né in Italia né altrove, il testo fa capire la generale situazione:
“In caso di mancata presentazione dei militari soggetti alla predetta chiamata, oltre alle pene stabilite dalle vigenti disposizioni del codice militare di guerra, saranno presi immediati provvedimenti anche a carico dei capi famiglia”.
Tra qualche mese la minaccia sarà aggravata: contro i renitenti alla leva, cioè i giovani delle classi 1923-1924-1925, e i “disertori”, cioè gli ex militari che non si ripresentano ai loro reparti, c’è la pena di morte, e in molti casi la pena sarà eseguita.
Tratto da: 9 novembre 1943, di Sergio Lepri
Ma nonostante il rischio di ritorsione sui capo-famiglia e la minaccia della pena di morte, fin da subito la chiamata all’arruolamento non sembrò avere successo. Qualche settimana dopo fu lo stesso Graziani a pronunciare alla radio un discorso per sollecitare all’arruolamento.
PENA DI MORTE
Nel Regno d’Italia la pena di morte venne abolita nel 1890 quando entrò in vigore il nuovo codice penale Zanardelli. Venne reintrodotta da Mussolini nel 1926 per i delitti politici contro lo Stato, e nel 1930 anche per quelli comuni con il Codice Rocco. Dopo la caduta del fascismo la pena di morte venne soppressa nel 1944, con alcune eccezioni (la data storica dell’ultima esecuzione capitale per reati comuni risale al 1947).
Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana nel 1948 venne abolita per tutti i crimini, a esclusione dei casi previsti dalle leggi militari di guerra, che cadono anch’essi definitivamente nel 1994, quando per legge viene modificato il codice penale militare.
La questione è stata sancita dall’articolo 27 della Costituzione italiana, che oggi stabilisce esplicitamente che la pena di morte è vietata.
Non fu facile nemmeno per i giovani di leva di una giovane nazione nata solo cinquanta anni prima (1861) affacciarsi alla Prima guerra mondiale, costretti a dover affrontare le dure privazioni della vita in trincea. Una guerra quella del 1915-18 che rompe gli schemi con le vecchie concezioni e l’idea romantica delle gesta eroiche del Risorgimento.
IL SERVIZIO DI LEVA
Il servizio di leva fu istituito nello stato unitario italiano con la nascita del Regno d’Italia proclamato il 17 marzo 1861. Gli equilibri fra le Potenze europee dell’Ottocento dipendevano molto dal potere militare che, pur avvalendosi di nuovi e più potenti armamenti via via messi a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico, era fondato soprattutto sul numero degli uomini in armi, specie nell’era dell’espansione coloniale e del fervore nazionalistico che avrebbe portato alla Grande Guerra, e negli anni dei totalitarismi e del terribile Secondo conflitto mondiale.
Il servizio di leva fu poi confermato con la nascita della Repubblica italiana, ed è stato in regime operativo dal 1861 al 2005, per 144 anni.
Milioni di uomini furono vestiti di grigio verde e inviati a combattere in posti che non avevano mai visto, e contro un nemico che era stato sempre dipinto dalla stampa nazionale come “l’orco cattivo” che voleva conquistare e invadere la patria. Contadini, soprattutto, uomini di ogni regione d’Italia venivano trasferiti in lembi di stato di cui non avevano mai sentito parlare e si trovarono a vivere, morire e combattere insieme ad altri uomini che parlavano spesso un dialetto per loro incomprensibile.
di Maurizio Attanasi da “E il fante italiano andò in guerra…”
L’Italia in guerra
La Prima guerra mondiale fu una guerra totale con armi micidiali che coinvolse la popolazione civile e che produsse miseria, con donne e bambini chiamati a sostituire gli uomini nei campi e nelle fabbriche, o sulle montagne come supporto ai soldati.
Nel Regno d’Italia era stata messa in atto una propaganda che incitava al patriottismo, fomentava l’odio per il nemico e forgiava le giovani menti fin dalla scuola con programmi di studio infarciti di riferimenti alla guerra in corso… naturalmente per chi la scuola poteva frequentarla. Pur esistendo l’obbligo scolastico, fin dalla scuola elementare molti bambini abbandonavano o frequentavano poco per lavorare nei campi o in famiglia, specialmente nelle zone rurali e nel Sud. Nel 1915 l’analfabetismo nella popolazione italiana era molto alto.
“La guerra che poi sarebbe stata battezzata come Grande aveva già meritato l’aggettivo, chiamando da Soreni ben tre leve di maschi alla trincea del Piave, e non bastavano ancora. Dal fronte, insieme ai feriti gravi congedati, arrivavano notizie dell’eroismo della Brigata Sassari, e Bonaria ventenne aveva già visto abbastanza mondo da sapere che la parola «eroe» era il maschile singolare della parola «vedove». Ciononostante era proprio sposa che le piaceva immaginarsi”.
di Michela Murgia da “Accabadora”
La Brigata Sassari è una delle unità più celebri e storiche dell’Esercito Italiano, in particolar modo con i suoi eroici 151° e 152° Reggimenti di Fanteria che combatterono nella Grande Guerra.
La brigata si costituì nel 1915 in Sardegna a Tempio Pausania (Sassari) e subito dopo venne impegnata in combattimento sul fronte italiano: attraversato l’Isonzo, partecipò con grande coraggio alle sanguinose battaglie sulle alture del Carso (area montuosa tra Italia, Slovenia e Croazia) dove oltre alle difficili condizioni del terreno, si trovò a fronteggiare l’artiglieria austro-ungarica, sull’Altopiano di Asiago e sul Piave incitando alla riscossa contro il nemico che incalzava.
La Brigata Sassari composta quasi interamente da sardi, si distinse per il suo coraggio, la resistenza e l’abilità in combattimento, e soprattutto per il suo spirito di corpo di soldati molto legati alla loro terra e orgogliosi della loro identità sarda.
Con la Battaglia di Caporetto l’ultima classe di leva da opporre al nemico furono i ragazzi nati nel 1899. Non ancora diciottenni il loro battesimo del fuoco avvenne all’alba del 1917.
In un momento di gravissima crisi, i ragazzi del ’99 vennero chiamati a rimpinguare le schiere del Regio esercito che aveva esaurito gli uomini decimati nelle trincee. I coscritti di leva istruiti frettolosamente vennero spediti direttamente al fronte a rinsaldare le file dei veterani, il loro apporto si dimostrò fondamentale per gli esiti della guerra.
Nel 1918 nella zona tra il fiume Piave, il massiccio del Grappa, il Trentino e il Friuli si combatté la decisiva battaglia di Vittorio Veneto, il cui esito fu la vittoria italiana che portò alla fine della guerra sul fronte italiano e la firma dell’Armistizio di Villa Giusti (Padova) da parte dell’Impero austro-ungarico.
Il ricordo di questi giovanissimi combattenti sopravvive nella memoria popolare: a loro è dedicata l’Associazione Nazionale “I Ragazzi del ’99” fondata nel 1921 e posta sotto il controllo del Ministero della Difesa, oltre a numerose vie e luoghi al fine di onorare e custodire la loro memoria.
Un racconto, una poesia e un pezzo di storia d’Italia
“A rubarle l’abito da sposa era stata la guerra” − Raffaele Zincu risultava essere morto sul Piave − “E quella guerra la faceva l’Italia, mica la Sardegna. Quando si muore per una terra, quella terra diventa per forza la tua. Nessuno muore per una terra che non è la sua, se non è stupido”.
di Michela Murgia da “Accabadora”

In quello che è ricordato come il più crudele e sanguinoso conflitto nella storia dell’uomo, nella gelida notte della vigilia di Natale del 1914 i fucili tacciono, i cannoni ammutoliscono e lungo le trincee tedesche appaiono strane luci: sono alberi di Natale! Dalle linee britanniche si leva il suono delle cornamuse che accompagnano i canti tradizionali del Natale che giungono fino alle postazioni delle truppe francesi. “Merry Christmas!” qualcuno grida, “Joyeux Noël!” un altro risponde, per poi unirsi all’uno o all’altro coro. Nasce così, spontaneamente, qualcosa di speciale: come una tregua di Natale!
Degli uomini in guerra deposto le loro armi, si sono tesi la mano in segno di pace. Un atto di umanità che avvenne durante la Prima guerra mondiale, ricordato dal regista Christian Carion nel film del 2005 Joyeux Noël – Una verità dimenticata dalla storia.
Ma qualcosa di simile si è ripetuta ben cento anni dopo!
Leda
Nella notte del 13 dicembre 2014 i cosiddetti “Cyborg”, il reparto dell’esercito ucraino che da mesi difende le rovine dell’aeroporto di Donetsk, si sono accordati con i ribelli filo-russi per una breve tregua. Nel silenzio improvviso, a dieci gradi sottozero, soldati infreddoliti e con le barbe lunghe sono usciti dalle trincee aggrovigliate intorno alle rovine… continua
(ilpost.it)
Senza un nemico da sconfiggere
non c’è una guerra da combattere.
* Attenzione: lo scopo di questo post è solo storico e divulgativo, senza alcuna intenzione di promuovere ideologie, guerre o celebrare miti del periodo fascista della nostra storia italiana.